Gentile Direttore,
spesso ci si dimentica che la psichiatria non segue il buon senso comune e le sue scorciatoie, che sembrano offrire la facile soluzione ai problemi. Quello che sta emergendo nella Regione Veneto in Salute Mentale (e non credo sia un elemento isolato nel quadro Italiano) è una aumentata richiesta di soluzioni istituzionali, sotto forma di residenzialità e semiresidenzialità. Parlo di soluzioni istituzionali, perché la attenzione è rivolta ai luoghi ove collocare le persone, e non alle attività che con le persone possono essere fatte perché stiano meglio, che prescindono dai luoghi, ma di cui non si parla e che pare non siano sentite come un problema.
Già nel 2018 vi era stata in Veneto una prima revisione della residenzialità, che aveva ampliato i posti letto rispetto ai 1859 allora esistenti. La programmazione, nelle varie tipologie di intensità assistenziale definite dalla DGR 1616/2008, consentiva di espanderli complessivamente a 2048, anche se di fatto il loro aumento si è fermato a 1874. A questi però andavano aggiunti 280 posti in strutture di nuova individuazione, le RSSP, dove la mancanza di un limite di permanenza, per ospiti i cui requisiti erano una età superiore a 45 anni e il non avere risposto a non meglio definiti interventi riabilitativi, dando al tutto una sinistra ombra neomanicomiale.
Il 14 novembre 2024 è stata approvata la DGR 1299, che mantiene i 280 posti di queste RSSP, riducendo la restante offerta. Il risultato è una residenzialità di 2076 posti letto , con quindi oltre 200 posti in più rispetto al 2018 e con i posti riservati a queste nuove sperimentazioni neomanicomiali che passano dal 12 al 14%.
Tutto questo lavoro è stato motivato da un incremento delle richieste per queste strutture segnalato dai DSM, con la difficoltà di reperire posti disponibili, un problema sollevato pubblicamente sulla stampa locale anche recentemente dalle varie associazioni che riuniscono i gestori di queste strutture. Parliamo di “gestori" anche perché questo è il primo elemento di interesse.
Di fatto quello che sta avvenendo in Salute Mentale, e non solo nel Veneto, è un crescente doppio binario. Da una parte la residenzialità e la semiresidenzialità vede come protagonisti i soggetti privati, che espandono anche i posti letto ospedalieri mentre dall’altra gli SPDC si riducono come si riducono i servizi territoriali pubblici.
Il secondo elemento, strettamente collegato, è che questi costi crescenti, per strutture istituzionali dove “mettere” i pazienti, non avviene con ulteriori specifici fondi, ma con una attribuzione al fondo sanitario indistinto delle singole ASL. Questo significa che, dal momento che non verrà certo espansa la parte localmente attribuita alla Salute Mentale e non potrà essere contratta la spesa ospedaliera, che è anzi in espansione, il costo sarà sostenuto da un minore finanziamento alla parte territoriale, i Centri di Salute Mentale, destinati ad essere sempre più dei semplici ambulatori ad ore.
Il terzo elemento è che questa espansione della spesa per la residenzialità renderà ancora più difficile la situazione dei pazienti, delle loro famiglie e dei Comuni, ove chiamati a compartecipare. Di fatto già adesso i Comuni si trovano in grandi difficoltà a sostenere questo tipo di costi. Aggiungiamo che la recente DGR sul budget di salute approvata in Veneto ha in sè la possibilità di chiedere supporto ai Comuni anche per spese riabilitative che sarebbero integralmente a carico sanitario.
Ma soprattutto c’è una considerazione, che ci riporta alla questione del senso comune e della psichiatria. Certo, a fronte della aumentata richiesta di residenzialità la soluzione più ovvia è aumentarla e renderla economicamente più gestibile per i privati. Ma questa scorciatoia del pensiero non funziona a favore dei pazienti, soprattutto perché comporta un impoverimento di quel territorio che dovrebbe evitare la cronicizzazione di cui si occupano queste strutture e favorire comunque soluzioni non istituzionali; riporta comunque la psichiatria a modelli pre Legge 180/78; e comporta una progressiva perdita di centralità per la struttura pubblica che dovrebbe coordinare gli interventi, secondo logiche di erogazione di servizi e non di profitto economico.
La apparente soluzione in realtà rischia di non risolvere nulla e di aprire la strada non solo ad una progressiva impossibilità nel gestire economicamente la soluzione, ma a una visione della salute mentale dove la minima difficoltà clinica trova automatica e pronta soluzione mettendo da qualche parte il paziente, una soluzione che la psichiatria italiana credeva di avere superato nel 1978.
Andrea Angelozzi
Psichiatra