Gentile Direttore,
ci fa piacere che qualcuno si interessi, anche da un punto di vista teorico, al valore non soltanto etico, ma soprattutto preventivo ed “economico”, del riconoscimento della incidenza dei disturbi psichici sulla imputabilità e, quindi, sulla colpevolezza. Lo ha fatto pochi giorni or sono Luciano Eusebi, con mente sufficientemente sgombra da rilevanti pregiudizi, anche da pregiudizi derivanti dall’adesione a credenze religiose o ideologiche.
Luciano Eusebi ha messo in evidenza la circostanza che, uno sbrigativo e cieco atteggiamento giustizialista e vendicativo, produce effetti disastrosi sul fronte del trattamento degli autori di reato, ma anche e soprattutto sul fronte della prevenzione dei reati stessi. Ci sono alcuni dati su cui riflettere se si vuole affrontare ragionevolmente e in maniera logica il problema del trattamento e della prevenzione.
Vediamo taluni dei dati salienti che emergono indiscutibilmente se si analizza la gestione delle pene nel mondo western, in Italia in particolare. Le nostre galere sono attualmente stracolme di persone che presentano gravi o gravissimi problemi: persone affette da disturbi mentali gravi, talune delle quali prosciolte per vizio di mente che non possono essere ammesse nelle REMS per mancanza di posti; tossicodipendenti cronici e/o con doppia diagnosi; persone il cui stato mentale non è mai stato adeguatamente valutato, tantomeno in relazione al grado di imputabilità. Un terzo delle persone recluse in Italia sono stranieri, con percentuali che, in taluni istituti di pena, superano i due terzi: chi ragionasse seriamente si dovrebbe chiedere come possa essere valutato in maniera adeguata lo stato mentale di persone così distanti dagli italiani per lingua e per cultura. La consistenza del numero del numero dei detenuti con disturbi psichici indusse qualche anno or sono una Sovrintendente della Polizia Penitenziaria a esprimersi così: “Il carcere si sta trasformando in una enorme REMS”.
Come meravigliarsi, allora, se ormai da qualche anno la prevalenza dei detenuti che si tolgono la vita supera di venti volte quella delle persone che lo fanno all’esterno? Come meravigliarsi della crescita di comportamenti violenti (persino mortali) agiti o subiti in carcere da malati mentali? In questo carcere privo di ragione e di speranza, le deaths of despair stanno diventando la norma.
Pochi giorni or sono uno Psicologo toscano ha lasciato il carcere dove ha lavorato per anni, esprimendo sensatamente le ragioni per le quali ha ritenuto di non riuscire a sopportare il ruolo di “saltimbanco del trattamento”.
Come psicoanalista non mi meraviglio in alcun modo dell’inevitabile pulsione vendicativa che è parte sostanziale dell’inconscio di ciascuno, anche delle persone che vorrebbero apparire pacate e moderate, ma la cui ragionevolezza si sgretola non appena qualcuno adombra l’ipotesi che andrebbe approfonditamente valutata la colpevolezza dell’autore di un reato “pazzesco” commesso in danno di un familiare della persona pacata: solo la pena massima inflitta a quel criminale soddisfa le esigenze della legge del taglione che governa l’inconscio. Della pulsionalità inconscia dell’altro è indubbiamente necessario che coloro che applicano le leggi tengano conto, ma senza sacrificare la verità e la realtà: se si condanna al massimo della pena, come sano di mente, Anders Breivik, l’uomo che in Norvegia, nel 2011, uccise settantasette persone per delle credenze che la stragrande maggioranza delle persone riconoscono come “pazzesche”, allora tutti hanno davvero “diritto alla pena” (come sostengono coloro che vogliono abrogare il “vizio di mente” dal codice penale). Il che significa che tutti hanno diritto alla vendetta.
Riconoscere le peculiarità psicologiche (e psicopatologiche) degli autori di reato sarebbe senz’altro più conveniente soprattutto da un punto di vista “economico”. Riconoscere e trattare il disagio psichico evita i pesantissimi danni provocati, a quelle persone e ad altri, dal mancato riconoscimento/trattamento. Ma questo consentirebbe anche una migliore collocazione delle risorse pecuniarie, poiché sarebbe davvero sciocco pensare che il carcere attuale consenta una cura adeguata del profondo disagio psichico che alberga. Ma persino l’economia intrapsichica dei malati di mente detenuti ne trarrebbe un gran giovamento, considerando che dobbiamo quasi sempre curare “criminali per senso di colpa”, persone che vanno cioè alla ricerca di una punizione per soddisfare profondi e impropri sensi di colpa.
Non sono meravigliato, avendo lavorato in carcere per quasi quarant’anni, che il calendario del 2025 della Polizia Penitenziaria sia dedicato esclusivamente ai compiti di controllo e di repressione assegnati al corpo. Quello che spero, considerando l’ambizioso motto di quella Polizia (Despondere spem munus nostrum), che richiama gli appartenenti a quel Corpo all’assunzione di funzioni trattamentali molto più alte e specialistiche, è che almeno i calendari del 2026, 2027 e 2028 siano dedicati all’esercizio di compiti che gratifichino altre e più nobili pulsioni di quegli operatori, la cui umanità ho spessissimo riconosciuto quando li ho avuti accanto, persino nelle più impegnative azioni di controllo del disagio e della pericolosità sociale dei detenuti. Solo favorendo l’assunzione di questa alta responsabilità trattamentale degli operatori, essi potranno depondere spem. E la società civile potrà meglio sostenere la loro speranza, considerando che anche fra gli Operatori della Pol Pen non sono pochi coloro che si tolgono la vita.
Mario Iannucci