Gentile direttore,
l’anno del centenario della nascita di Franco Basaglia si è concluso. Le iniziative, i convegni, i libri, le mostre, persino l’emissione di un francobollo, hanno accompagnato i mesi trascorsi in un rincorrersi variegato di ricordi, evocazioni, appropriazioni debite e indebite della figura dello psichiatra veneziano. Molto nominato, poco studiato, una più degna celebrazione forse sarebbe stata una ripresa accademica dei temi basagliani e dei loro sviluppi, ma in questa epoca d’immagine, chiedere di tornare a studiare e analizzare un pensiero e le pratiche ad esso profondamente connesse forse è troppo. Se avviene all’estero e non da noi ci sarà pur un motivo.
A suggellare l’anno si è svolta la Seconda Conferenza Nazionale autogestita per la Salute Mentale, tenutasi a Roma il 6 e 7 dicembre, che si è conclusa con una dichiarazione ufficiale in cui si evidenziano le carenze dei servizi per la salute mentale, in parte connesse alla crisi del SSN, e viene denunciato il progressivo impoverimento culturale e operativo di una disciplina sempre più assimilata alla medicina biologica e, al contempo, soffocata in una dimensione assistenziale che esaurisce ogni ambizione di cura delle persone. Alla critica dell’esistente, per tutti insoddisfacente, si uniscono richieste di politiche locali e nazionali adeguate per finanziamenti e numero di operatori che consentano una reale accessibilità dei cittadini al sistema di presa in carico, che impieghino risorse sufficienti a garantire autonomia di vita e abitativa a chi soffre di disturbi mentali, che rispettino la dimensione territoriale degli interventi attraverso lo strumento dei LEA, che facciano del monitoraggio dell’azione dei servizi un punto di forza. Il documento finale cita i rischi di un progressivo abbandono delle persone più esposte per storia personale, familiare e sociale alla sofferenza psichica, una condizione che accomuna malati, famiglie, minori, adolescenti, giovani, anziani, folli autori di reati, carcerati, migranti, disabili. Tutti coloro cioè che vivono condizioni di vulnerabilità e che se non avvicinate, rispettate e trattate per le loro condizioni sono destinate a una marginalità le cui conseguenze in termini di deriva sociale sono peraltro già in atto.
Le soluzioni a uno spostamento deliberato e progressivo dell’assistenza sanitaria dalla dimensione pubblica a quella mista con un incremento del privato, assicurativo, convenzionato o puro che sia, non sono certamente né semplici né veloci. Si tratta di trovare punti di contrasto a una tendenza generale che è in atto da tempo, e non solo in Italia, e che vede nella svalutazione del Servizio Sanitario Nazionale la chiave per uno spostamento di interessi e guadagni per un’imprenditoria sanitaria sempre più agguerrita. La Salute Mentale, che è più della disciplina medica psichiatrica, ha tutto da perdere in questa sfida: si tratta di accostarsi alla sofferenza prima che si cronicizzi o di attutire gli effetti devastanti di patologie che possono accompagnare chi ne soffre per lunghi periodi, talora a vita. Non ci sono cure miracolose né scoperte farmacologiche mirabolanti, le biotecnologie non hanno spazio nella dimensione esistenziale: serve costanza, pazienza, esperienza, competenza, doti che non sembrano essere coltivate nelle nostre Università. Chi ha interessi economici in questo ambito non ha da proporre che farmaci da distribuire, non sempre con prudenza, e luoghi in cui ricoverare persone per periodi più o meno lunghi, posti letti da occupare a caro prezzo. Gli investimenti si concentrano più sulla gestione della cronicità, ahimè redditizia, che sulla cura e la prevenzione,
Si tratta di temi che non possono trovare adeguato spazio su questa testata che comunque da sempre si distingue per l’attenzione che dedica al tema della Salute Mentale. È per questo motivo che il recente intervento di Ivan Cavicchi (QS del 7/1/25) suona stonato, un malinconico e nostalgico appello da parte di chi da tempo si pronuncia sull’argomento pur ammettendo di non esserne competente, avendo altri indubbi skills ma non certo l’esperienza di chi con la sofferenza delle persone, delle famiglie, degli operatori ha dimestichezza quotidiana. Ricco di un linguaggio evocativo e prigioniero degli stessi –ismi contro cui dice di combattere la sua diuturna e solitaria lotta, il professor Cavicchi si cimenta in una critica retrospettiva alla ricerca di colpevoli. E li trova in coloro che, per decenni, hanno lavorato e si sono impegnati per una pratica psichiatrica umanizzata, socialmente equa, rispettosa della partecipazione delle persone alla propria salute, anche mentale, preoccupandosi di offrire cure e opportunità a coloro che ne erano privi o ne erano stati espropriati. E non parlo solo di pazienti ma anche di genitori, fratelli, sorelle, uomini e donne che hanno incontrato sulla strada della loro vita la sofferenza e sono state aiutate a non arrendersi. Viene da chiedersi di quale passato sia prigioniero il nostro, in quale “già visto” sia impigliato, di quali occhiali sia dotato, per non vedere quanto sia attuale il disastro delle cure standardizzate, delle terapie psichiatriche e psicologiche tecnicizzate all’inverosimile e massimamente impotenti, di una psichiatria che vanta parenti nobili tra i neuroscienziati e al contempo difende mezzi di contenzione ai letti, vagheggia luoghi di detenzione per isolare i matti violenti e assiste quotidianamente alla violenza di casa e di strada di ‘comuni’ cittadini, che per prevenire l’impotenza e l’amputazione della vita da parte di adolescenti e giovani che non hanno a disposizione che il proprio corpo per parlare e chiedere aiuto li rinchiude in luoghi separati dal resto del mondo a cui appartengono, che vanta indipendenza e libertà di giudizio e di pratica per i suoi ‘sacerdoti’ e li riduce a stilare certificazioni di compatibilità con la vita ristretta nei CPR per poveri migranti colpevoli di cercare condizioni di vita migliori. Poveri burocrati al servizio di istanze non sanitarie.
Non so a quale intento attribuire il criticismo stizzito di Cavicchi. Così attento al linguaggio in altri casi, finisce per accontentarsi di un’invettiva contro quelli a cui attribuisce il ruolo di conservatori dell’esistente in nome del passato, come chi risale la china dei colpevoli a più generazioni precedenti per giustificare le faide in cui è impegnato, invocando una verità di cui sarebbe depositario ma che non ci dice. Eppure, lo rassicuro, ce ne sarebbero di cose da dire che non vanno. Non va, ad esempio, non saper stare e non insegnare a stare coi matti e con chi soffre. Non va bene neppure rifiutare la specificità di una disciplina pratica che dovrebbe fare dell’integrazione della dimensione sociale con quella sanitaria il suo punto di forza. Non va neppure esaltare la delega al tecnico soi disant competente rinunciando alle risorse delle persone e della famiglie nella gestione della propria salute e alla partecipazione attiva delle comunità. Neppure mi pare positivo il "revisionismo semantico" che ha portato alla inclusione nella categoria onnicomprensiva ‘Salute Mentale’ di pazienti con disturbi gravi, giovani in fase di smarrimento adolescenziale, adulti in cerca di risposte al proprio malessere e anziani soli e impoveriti, sia materialmente che nelle relazioni. Un modo per trasformare in una questione individuale quanto ha le sue radici in una dimensione relazionale e sociale. A chi ha dimenticato poi la lezione del Covid-19, ricorderei i danni dell’estensione della terminologia medico-diagnostica a condizioni esistenziali. I Dipartimenti di Salute Mentale e le altre strutture di cura si trovano ad affrontare una sfida complessa e stratificata: la disomogeneità dei servizi, la carenza di personale adeguatamente formato e consapevole e l’aumento di nuove fasce di pazienti, come i giovani, sono sintomi di un sistema sanitario che fatica a rispondere alle esigenze dei mutamenti sociali in atto. Il crescente numero di aggressioni al personale medico, ad esempio, può essere interpretato come un indicatore di un più generale disagio strutturale e organizzativo, segno di un sistema in affanno, incapace di offrire risposte tempestive e adeguate. Il personale sanitario si trova nella prima linea di contatto tra chi, in assenza di contenimento e mediazione, li identifica quali rappresentanti di uno Stato indifferente. Di fronte alla paura, alla sofferenza e alla morte emergono rabbie e violenze evacuate senza alcuna possibile elaborazione. E qualcuno dice che sono in aumento le patologie psichiatriche violente… Si tratta di un’epidemia di disturbi mentali o dell'emergere di strategie di difesa in Ego fragili che faticano a fronteggiare le pressioni interne ed esterne? I modelli di sviluppo e gli stili educativi giocano un ruolo cruciale in questa dinamica: l’intolleranza alla frustrazione e alla sofferenza psicologica, spesso incentivata dal contesto familiare e sociale, si traduce in una scarsa capacità di adattamento alle difficoltà della vita. La psicologia e la psichiatria sono chiamate a colmare le lacune del sistema sociale, e rischiano di perdere la loro funzione originaria e di trasformarsi in strumenti impropri per affrontare disagi che avrebbero bisogno di soluzioni sociali più che terapeutiche. La psichiatria è un campo complesso, progettato per affrontare vere e proprie patologie, ma oggi assistiamo a un ricorso crescente alla sua autorità per interpretare e risolvere problemi che sono, interamente o in parte, di natura sociale o relazionale. È un approccio riduttivo che rischia di trasformare ogni fragilità umana in un caso clinico, medicalizzando esperienze di vita che potrebbero essere affrontate diversamente. Così facendo, non solo si riduce la psichiatria a un mero strumento di controllo, ma si distoglie l’attenzione dalle cause profonde della sofferenza umana, come la disuguaglianza, la solitudine e la mancanza di un supporto comunitario. È un errore metodologico e concettuale che impoverisce sia la disciplina psichiatrica sia la nostra comprensione dell’essere umano.
Tutto questo e altro ancora, non paiono costituire cruccio per Cavicchi che si accontenterebbe forse di un autodafè da parte di qualcuno, come in altri regimi è uso. Né paiono preoccuparlo le proposte di riforma che animano le destre di governo essendo ben altri i suoi ‘nemici’. La mia preoccupazione al contrario è forte quando guardo al sistema sanitario attuale, dove la carenza di risorse e la frammentazione dei servizi compromettono la qualità dell’assistenza. I principi fondanti della Legge Basaglia – che miravano a un approccio umano e integrato alla cura psichiatrica – appaiono lontani dalla realtà operativa di oggi. Una gestione basata esclusivamente sul controllo dei sintomi risulta incapace di cogliere la complessità della sofferenza psicologica, rischiando di ridurre il disagio mentale a un problema tecnico da risolvere con protocolli e algoritmi. Di fronte a proposte di riforma che sembrano privilegiare la gestione sintomatica a discapito di una visione olistica, mi chiedo se non stiamo tradendo davvero l’ispirazione basagliana che nel dialogo costate tra prassi e teoria vede la sua cifra rivoluzionaria. La vera sfida non dovrebbe essere solo “gestire” la sofferenza, ma comprendere e sostenere l’individuo nella sua interezza, riconoscendo il disagio psichico come parte integrante di un contesto sociale e culturale.
Antonello D’Elia