La sanità italiana ha bisogno di ricentralizzazione, almeno parziale
di Lino Puzzonia
09 GEN -
Gentile Direttore,grazie anche a
una rivista scientifica internazionale si è aperto un fondamentale dibattito “politico” e tecnico sul futuro della sanità italiana, che la vostra prestigiosa testata (sempre in prima linea nella “battaglia delle idee” sul SSN) sta ospitando in questi giorni.
Un dato: nel giro dei prossimi 25 anni la popolazione italiana diminuirà di numero e vedrà aumentare la propria età media con la presenza di più di un terzo di ultra65enni. Ciò determinerà l’aggravarsi delle problematiche di difesa della salute e dell’assetto sociale. Uno dei maggiori problemi del SSN è costituito da un eccessiva frammentazione dello stesso in 20 diversi sistemi regionali che comporta numerose e differenti scelte sia di carattere politico sia di carattere tecnico professionale. Non esiste una effettiva standardizzazione delle tecnologie diagnostiche che ne permetta la confrontabilità e quindi la continuità nell’utilizzo costringendo a costose duplicazioni, è assente un omogeneo meccanismo di raccolta dei dati relativi a un singolo paziente e provenienti sia dagli ospedali che dai medici di medicina generale, tutto ciò, inasprito dall’eccessivo ricorso al privato, impedisce l’efficacia del fascicolo elettronico come invece avviene per l’analogo sistema britannico.
In aggiunta a queste criticità, apparentemente tecniche, un problema risiede nella grossolana allocazione delle risorse finanziarie e ancora nell’eccessivo ricorso al privato, tutti fattori che producono evidenti disuguaglianze e che non permettono di tutelare l’interesse pubblico piuttosto che di quello dei singoli. Una ricentralizzazione dovrebbe essere la soluzione più appropriata.
Questa impietosa analisi della situazione sanitaria italiana non proviene da un pericoloso nucleo di osservatori “bolscevichi o giacobini” ma è una parte delle riflessioni contenute in un recente editoriale di “Tha Lancet”, l’antica e prestigiosa rivista medica britannica, del paese cioè dove è nato il primo Servizio sanitario nazionale ideato da William Beveridge.
Veniamo a noi, dunque, e credo che le brevi considerazioni riferite facciano ben comprendere che se si vuole riallineare la sanità di questo grande paese è necessario che l’autorità centrale ne assuma il compito. Quello che sta avvenendo, invece, è esattamente il contrario, cioè, portare la frammentazione all’estremo limite mediante la cosiddetta autonomia differenziata.
È vero che la Corte costituzionale sembra aver elevato una solida barriera a certe storture contenute nella legge approvata in Parlamento ma una cosa è l’affermazione di un principio e altra cosa è la sua effettiva realizzazione. A tale proposito credo che innanzitutto vada riaffermato con forza che l’allocazione delle risorse non può che essere proporzionata al numero dei soggetti interessati e all’entità dei loro bisogni “veri”, cioè, basati su dati scientificamente validi.
In passato ciò non è mai avvenuto perché in un paese che nel 1978 (alla nascita del SSN) presentava le conseguenze di un centenario sviluppo duale nulla fu fatto per superare quelle differenze che, specialmente in un settore così delicato, non erano più tollerabili.
I principi di solidarietà e di uguaglianza affermati politicamente dalla Riforma non furono rispettati e con diversi meccanismi (la spesa storica prima e un’iniqua e arbitraria individuazione dei bisogni dopo) le differenze sono state mantenute e, in qualche caso, accresciute.
Da quando si è poi avviato un timido tentativo di riallineamento era ormai intervenuto un fenomeno incontrollabile a cui accenna anche il citato editoriale di “The Lancet” e cioè la mobilità sanitaria. Le regioni privilegiate hanno una migliore offerta sanitaria che “vendono” a quelle sfavorite realizzando enormi economie di scala che permettono ulteriori investimenti mentre le altre si vedono sfuggire qualsiasi possibilità di affrontare i gravosi problemi. Purtroppo ciò comporta anche un danno d’immagine che fa sì che chi può permettersi i costi aggiuntivi dell’emigrazione, ricorra alle cure fuori regione anche per patologia perfettamente trattabili in quella di origine aggravandone vieppiù l’efficienza.
Lo sforzo necessario allora è quello di una radicale presa di posizione politica tendente a riportare almeno parzialmente la gestione di una serie di misure importanti al livello centrale con l’obiettivo di riallineare nel medio periodo le grossolane disuguaglianze presenti.
Una progressiva diminuzione della mobilità potrebbe consistere in un grande sforzo culturale e politico per non incentivare il trasferimento di malati per patologie per le quali esso non è necessario.
Una soluzione potrebbe essere rappresentata dal “raffreddamento” delle tariffe attribuite agli erogatori. Se una autorità centrale stabilisse che tutte le patologie in mobilità venissero tariffate a un prezzo marginale (cioè al reale costo, incrementato magari da un minimo profitto e non al costo pieno del DRG) gli erogatori (specialmente il privato convenzionato) potrebbe non avere più motivi, per esempio, di incentivare la mobilità perché produttrice di risorse aggiuntive.
Insistere invece su una ulteriore e progressiva privatizzazione con la discesa in campo di grossi capitali sanitari e assicurativi, che vanno ad invadere non solo la sanità ospedaliera ma anche quella territoriale sia nel campo della specialistica, sia in quello della medicina di base e della cronicità, rischia di trasformare il Ssn in una giungla.
Non possiamo essere ottimisti: le Regioni di ogni colore politico traggono dalla sanità la principale ragione d’essere della propria esistenza e dell’esercizio del potere. La sanità è la fonte principale del consenso politico che viene ricercato con maggiore o minore virtù. Tuttavia, la parte più progressista e quella più povera del Paese dovrebbero prendere consapevolezza e prepararsi ad una grande stagione di lotta.
Lino PuzzoniaCentro Studi Fismu
09 gennaio 2025
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