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I conflitti sempre irrisolti della psichiatria: sono gli stessi di 50 anni fa  

di Enrico Di Croce

09 LUG - Gentile Direttore,
nel vivace dibattito fra psichiatri su pericolosità sociale, incapacità di intendere e volere e obblighi di cura non sempre le opinioni sono espresse in modo esplicito, soprattutto quelle politicamente scorrette. Quando invece si riesce a “parlare come si mangia”, è molto più semplice mettere a fuoco fenomeni che altrimenti rimarrebbero incomprensibili. Ad esempio: per quale motivo molti psichiatri protestano per il ruolo di controllo sociale della devianza che si è tornati ad attribuire loro, ma nulla cambia e anzi la tendenza si accentua sempre di più? A nostro avviso una delle ragioni è che a spingere nella direzione neo-custodialista sono gli psichiatri stessi; non tutti, certo, ma una solida maggioranza silenziosa (o minoranza silenziosamente egemone).

Siccome la silenziosità implica che di rado simili posizioni vengano sostenute in modo aperto in sedi ufficiali, è istruttivo rifarsi a fonti meno formali. Fra esse spiccano gli interventi su Quotidiano Sanità di colleghi come Brandi e Iannucci o Amatulli, che certo non difettano di chiarezza. In sostanza in questi contributi si afferma che il mandato agli psichiatri di controllare la pericolosità dei loro pazienti è una ovvia necessità; che rifiutarlo è ideologico e ipocrita; che non ha senso distinguere fra “veri” pazienti e disturbi di personalità con aspetti antisociali, in quanto questi ultimi hanno pari dignità di malattia, come dimostra la nosografia ufficiale e la ineccepibile sentenza “Raso” della Cassazione. E che il problema è quindi di dotare la psichiatria di strumenti legislativi e istituzionali più efficaci, per mettere i pazienti pericolosi in condizione di non nuocere.

Obiettivo, quest’ultimo, considerato indistinguibile da quello della cura e da attribuire esclusivamente al sistema sanitario. Chi propone alternative, che tentino di distinguere in modo netto fra funzione sanitaria e funzione di controllo sociale, viene tacciato di semplificazione e incompetenza.

Alla base di questo atteggiamento è facile rintracciare un filone ben radicato nella tradizione psichiatrica, che i tentativi di riforma dell’assistenza dell’ultimo mezzo secolo non sono riusciti a scalfire. A volte indicazioni chiare emergono anche nei contesti ufficiali; ad esempio consigliamo di ascoltare l’interessante intervento della professoressa Liliana Lorettu sul trattamento coatto delle tossicodipendenze, presentato al recente congresso della Società italiana di Psichiatria a Verona (disponibile sul canale YouTube di Psychiatry Online Italia). In sostanza, nell’ambito di questa scuola di pensiero, il concetto clinico di malattia mentale grave tende a coincidere con quello giuridico di infermità-incapacità e a sovrapporsi con quello di pericolosità; l’obbligo di cura a lungo termine per il paziente e di sorveglianza-garanzia sociale per gli psichiatri, ne sono l’ovvia conseguenza.

Altra cartina di tornasole è il drammatico tema dei suicidi in carcere, poiché la pericolosità per gli altri e per se stessi sono considerate inscindibili. Al proposito ci permettiamo di parafrasare la posizione espressa su queste pagine dai colleghi che prima citavamo come esempio:

1) i suicidi nelle carceri hanno cause semplici e squisitamente individuali. Dipendono "dall’esorbitante numero di detenuti che presentano disturbi psichici gravi o gravissimi". Il problema è quindi la patologia dei singoli: non il carcere, luogo spesso incivile e invivibile per chiunque; non complessi percorsi di vita all’insegna della fragilità e della marginalità, che portano ad atti disperati. No, chi si suicida da detenuto lo fa solo perché è malato di mente (evidentemente i “sani”, nelle medesime condizioni, non corrono alcun rischio). Infatti nei malati la soggettività è cancellata dal disturbo. Il disturbo mentale grave risolve in sè la complessità dei comportamenti individuali. E’ LA spiegazione delle azioni del malato.

2) Alla base di tutto (della pericolosità che porta in carcere e dei suicidi in carcere) c’è il problema della non compliance. Anch’esso è un puro fenomeno individuale. Se un paziente non vuole collaborare alle cure, la spiegazione non può essere cercata in complesse motivazioni soggettive e oggettive, magari in un sistema di cure male organizzato, inadeguato ai suoi bisogni, o presentato in modo incomprensibile. No. È solo per una caratteristica intrinseca della patologia: la dimostrazione lampante che qualcosa non funziona in quel singolo cervello malato. Ne deriva la necessità di strutture adatte per i "not compliant".

3) Se la non collaborazione alle cure implica non consapevolezza (incapacità) e pericolosità sociale e se queste sono caratteristiche di tutti i pazienti più difficili, non solo quelli che già si trovano in carcere; ne deriva per logica la necessità di “collocare” preventivamente anche i malati a rischio, prima che commettano reati, in strutture basate sulla coercizione e la difesa sociale. Beninteso, “benigne”, ovvero organizzate con esclusivi strumenti terapeutici e in contesti sanitari. A questo tipo di strutture dovrebbe essere devoluto l’intero incremento di risorse per la salute mentale che tutti gli addetti ai lavori reclamano.

In coerenza con questa posizione (che ci verrebbe da definire: “pericolosismo caritatevole”) i colleghi Iannucci e Brandi ricordano le “vitalissime origini” della psichiatria, “quando Chiarugi, Esquirol, Pinel e Tuke andarono nelle galere e affermarono con forza che i tanti rei-folli detenuti dovevano essere curati e non semplicemente puniti”. L’unica cosa che omettono di ricordare (ma forse perché lo danno per scontato) è che quella operazione umanitaria, quelle caritatevoli cure alternative al carcere, portarono alla fondazione del manicomio.

Sempre secondo questa visione, anche la dipendenza da sostanze "è di per sé un grave disturbo mentale", quindi causa intrinseca di incapacità. Se ne deduce che chi ne è affetto non dovrebbe rimanere in carcere ma essere curato in modo coatto in apposite strutture sanitarie. Non solo; ma visto che l’uso di sostanze comporta un grave rischio di commettere reati, sarebbe necessario e “non ipocrita” mettere in atto provvedimenti coattivi preventivi, ovvero prima che i reati vengano commessi (ipotesi considerata anche dalla professoressa Lorettu, nell’intervento citato prima).

Il passo logico successivo, che non viene esplicitato, è che la devianza stessa sia una patologia. Non sono forse il disturbo antisociale di personalità, i disturbi della condotta, la psicopatia, categorie riconosciute dalla nosografia ufficiale? Non dovrebbero quindi le carceri essere prima o poi sostituite da strutture sanitarie adatte per la cura dei criminali? Lo suggeriva in passato il pensiero di un celebre "esperto di salute mentale applicata al diritto": Cesare Lombroso. E lo sostengono oggi famosi neuroscienziati come Robert Sapolski, autore del libro: “Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio”, appena tradotto in italiano.

Non crediamo sia un caso se le posizioni del pericolosismo caritatevole riproducono alla lettera le feroci critiche mosse dagli psichiatri della vecchia scuola all’indomani dell’approvazione della legge 180: la mancanza di strutture per pazienti inconsapevoli e pericolosi, l’impossibilità di obbligare alle cure per tempi prolungati, la natura illusoria della pretesa di costruire un rapporto di alleanza terapeutica con i “veri matti”. A dispetto di tutte le retoriche celebrazioni per i cent’anni dalla nascita di Basaglia, il dibattito interno alla psichiatria, dal 1978 ad oggi, non sembra aver fatto sostanziali passi avanti.

Enrico Di Croce
Psichiatra, ex DSM Asl Torino4

09 luglio 2024
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