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Fine vita, il miracolo che ci vorrebbe: la misura, la pietas e la scienza

di Giovanna Razzano

09 LUG -

Gentile direttore,
su QS del 5 luglio M. Iannucci e G. Brandi, psichiatri psicoanalisti esperti di salute mentale applicata al diritto, intervengono nel dibattito sul fine vita - avviato su QS da Maurizio Mori con una critica nei confronti di un mio articolo apparso su Avvenire (cui ho risposto con una lettera pubblicata sempre su QS) - e mostrano subito di volersi collocare non solo più in alto (il titolo della loro lettera è “Fine vita e suicidio assistito, sgombriamo il campo da equivoci”), ma anche a distanza: “Qui si contrappongono due posizioni che risentono di un pregiudizio ideologico/religioso” - denunciano i due psichiatri - invece “noi stiamo dalla parte della misura (la bilancia è il simbolo della giustizia) e della pietas”, nonché della scienza, perché “non tutti credono nei miracoli”.

Ora, proprio perché a scrivere sono due psichiatri e la misura e la pietas mi paiono pregevoli virtù, qualche domanda me la sono posta: ho compiuto forse un atto di fede, quando ho puntualizzato che la sentenza della Corte di Strasburgo Dániel Karsai v. Hungary del 13 giugno 2024 ha escluso l’esistenza del diritto al suicidio assistito ai sensi dell’art. 8 CEDU? Sono passata all’ambito mistico, quando ho specificato che, per l’International Code of Medical Ethics 2023, il medico deve prestare le cure nel massimo rispetto della vita e della dignità umana? Ho espresso un dogma, mentre ricordavo che la WMA Declaration on Euthanasia and physician-assisted suicide esprime una ferma contrarietà all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito, che vengono qualificati atti eticamente inaccettabili e ben diversi dalla limitazione dei trattamenti? Ero mossa da pregiudizi religiosi, quando ho rimproverato a Mori di dare una falsa rappresentazione della realtà clinica, come se la scienza medica e la farmacologia non fossero in grado di trattare il dolore, e non vi fosse il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore?

Devo confessare che qualche dubbio, però, mi è venuto anche rispetto alla reale “neutralità” dei due Autori, quando ho letto che, secondo loro, che invece sul punto sono “senza dubbio”, “la questione è quella di rispettare la volontà del soggetto… e le leggi dei singoli stati devono stabilire a quali condizioni consentire la MAID (Medical Assistance In Dying)”; fra l’altro – proseguono - “se lo Stato pretendesse di sostituirsi al soggetto nel decidere quando la sofferenza di una malattia irreversibile sia per lui insopportabile, disquisendo invece finemente su cosa sia un “trattamento di sostegno vitale”, si dimostrerebbe uno Stato cinico e incline alla tortura”.

Non si accorgono, i due Autori che si vogliono collocare dalla parte della misura, della pietas e della scienza, che la loro è una professione di fede; credono nel dogma dell’autonomia assoluta dell’individuo, immaginato avulso da limitazioni, influenze e pressioni, a cui lo Stato e i medici, su semplice e insindacabile richiesta, dovrebbero somministrare la MIAD (in inglese in effetti suona meglio). Condizioni che, secondo i due Autori, dovrebbero esserci ma …dovrebbero non esserci, perché se lo Stato le ponesse, diventerebbe poi “cinico e incline alla tortura”. Dunque morte on demand, da annoverare fra i trattamenti sanitari, in tutti gli Stati.

Il problema, a proposito di scienza, è che proprio nella prospettiva della medicina che si basa sulle migliori evidenze (EBM), è di difficile collocazione il comportamento medico volto a procurare la morte o ad assistere nel suicidio: su quali prove di efficacia clinica si baserebbe un simile trattamento? Peraltro, come già visto, la WMA, cui afferiscono milioni di medici nel mondo, esclude che la MIAD possa qualificarsi trattamento sanitario. Qualche laico dubbio, quindi, sarebbe non solo opportuno, ma anche espressione di misura.

Quanto al dogma dell’autodeterminazione, significative sono le parole della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che proprio in riferimento alle questioni di fine vita, ha spiegato che, “quando viene in rilievo il bene della vita umana, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”. La protezione del diritto alla vita, ha chiarito la Corte, va garantita “soprattutto - ma occorre aggiungere: non soltanto - delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate” (ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 50/2022). Sia la Consulta, sia la Corte di Strasburgo richiamano a questo riguardo il dovere dello Stato di proteggere i soggetti vulnerabili, per evitare abusi, e non correre il rischio di interpretare come libera scelta dei pazienti richieste di morire in realtà dettate dalla solitudine, dall’assenza di cure proporzionate, dalla cattiva assistenza, quando non da pressioni esterne.

Tutto questo è misura, pietas e scienza. E, al di là dei pronunciamenti della WMA e delle Corti, è etica (non è religione).

Un bel miracolo però ci vorrebbe: quello di riscoprire – credenti e non credenti – un modo di dialogare che sia innanzitutto razionale, ossia davvero aperto ad ascoltare le parole, i significati e le ragioni altrui; un dialogo che sia responsabile, capace di interrogarsi sul bene dell’uomo, sempre considerato fine e mai mezzo; e, tutto questo, etsi Deus non daretur, ma anche, perché no, etsi Deus daretur, qualora la ragione e la coscienza, nel porsi le domande di fondo dell’esistenza umana (chi sono? da dove vengo? dove vado? cosa ci sarà dopo questa vita?), arrivino liberamente ad aprirsi ad una tale prospettiva.

Giovanna Razzano

Prof.ssa Ordinaria di Diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma, componente del Comitato nazionale per la Bioetica



09 luglio 2024
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