Gentile direttore,
la lettera di Maurizio Mori pubblicata su QS il 28 giugno 2024 (“Fine vita. Quando già si è malati senza scampo e sofferenti, la fragilità si tutela sostenendo la volontà del paziente”), con la quale egli critica l’articolo a mia firma apparso su Avvenire (“I confini indispensabili del sostegno vitale”, 27 giugno 2024, p. 19), richiede una replica, a motivo delle forzature di quanto da me scritto, delle palesi ambiguità, nonché dei toni aggressivi.
In primo luogo, l’Autore vuole far credere che l’affermazione per cui “fornire l’aiuto medico al suicidio a pazienti che non dipendono dai supporti vitali può dare luogo a ulteriori sfide e al rischio di abusi”, sia una “proposta di Razzano irrazionale, crudele e disumana”, mentre in realtà è un’affermazione della recente sentenza della Corte di Strasburgo (Dániel Karsai v. Hungary, 13 giugno 2024, paragrafo 150). Lo stesso vale per l’affermazione per cui “è probabilmente parte della condizione umana che la scienza medica non sarà forse mai completamente capace di eliminare tutti gli aspetti della sofferenza di chi è malato terminale”, e per quella secondo cui “a fronte di situazioni di elevata vulnerabilità occorre da parte degli Stati membri un approccio essenzialmente umano, che deve necessariamente includere cure palliative contrassegnate da compassione e da alti standard medici”: sono contenute al paragrafo 158 della sentenza.
In secondo luogo, l’Autore spaccia per un mio “pregiudizio vitalista” la tutela del diritto alla vita garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) e dalla Costituzione italiana, tralasciando il dato più significativo, ossia che, nella menzionata sentenza, la Corte di Strasburgo ha escluso ancora una volta che esista un diritto all’aiuto al suicidio in base all’art. 8 CEDU, e ha escluso che possa invocarsi l’argomento della discriminazione, in base all’art. 14 CEDU, al fine di ricavare un presunto diritto all’assistenza al suicidio negli ordinamenti che legittimano il rifiuto dei trattamenti anche vitali. Mentre infatti per Strasburgo quest’ultima scelta si iscrive nel principio del consenso informato e nella Convenzione di Oviedo, così non è per l’aiuto medico al suicidio, per cui l’asserita differenza di trattamento tra i suddetti due gruppi di malati terminali è oggettivamente e ragionevolmente giustificata (paragrafo 176).
In terzo luogo, l’Autore vorrebbe far credere che la risposta umana alle “condizioni infernali” sia procurare la morte, e che l’espressione massima dell’autodeterminazione della persona sia il suicidio, lasciando intendere che l’International Code of Medical Ethics 2023 legittimi questa tesi. Mori, tuttavia, tralascia la parte del documento in cui si afferma che il medico deve prestare le cure nel massimo rispetto della vita e della dignità umana, dell’autonomia e dei diritti del paziente (https://www.wma.net/policies-post/wma-international-code-of-medical-ethics/); dimentica, poi, la Dichiarazione di Ginevra (una sorta di giuramento medico e uno dei documenti fondamentali della WMA), per la quale il medico giura di perseguire il massimo rispetto per la vita umana (https://www.wma.net/policies-post/wma-declaration-of-geneva/), nonché la WMA Declaration on Euthanasia and physician-assisted suicide (https://www.wma.net/policies-post/wma-declaration-on-euthanasia/ ), in cui la WMA si dichiara fermamente contraria all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito, considerati atti eticamente diversi dal rispetto dovuto alla volontà del paziente di limitare i trattamenti, anche quando ciò dovesse comportare la sua morte.
In quarto luogo, Mori richiama solo parzialmente il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 18 luglio 2019, dimenticando che altrettanti componenti del CNB affermarono di opporsi al suicidio medicalmente assistito, sia sul piano etico che su quello giuridico, ritenendo che la difesa della vita umana debba essere affermata come un principio essenziale in bioetica e sottolineando i rischi che comporterebbe una scelta, da parte del nostro legislatore, di depenalizzazione o di legalizzazione del c.d. suicidio medicalmente assistito, modellata sulla falsariga di quelle effettuate in alcuni Paesi europei (https://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri/riflessioni-bioetiche-sul-suicidio-medicalmente-assistito/ ).
Eh già, perché anche se Mori vorrebbe farla passare per una mia “assurdità”, la stragrande maggioranza dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, come sottolinea la menzionata sentenza della Corte di Strasburgo, continua a sanzionare penalmente il suicidio medicalmente assistito, inclusa l’Italia, ancorché la Corte costituzionale abbia individuato, con la sent. n. 242/2019, una circoscritta area di non punibilità all’interno della fattispecie di reato dell’art. 580 cod. pen., in presenza di alcune condizioni. Fra queste, spicca quella per cui il paziente riceva trattamenti di sostegno vitale. Secondo l’argomentazione della sentenza 242/2019, infatti (la quale esclude l’esistenza di un diritto all’aiuto al suicidio e qualifica il divieto penale come funzionale alla tutela di un principio supremo), non si potrebbe vietare il suicidio a chi già avrebbe potuto prendere «la decisione di accogliere la morte», ex art. 1 l. n. 219/2017, «a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto».
Si tratta di un ragionamento che, come ho già scritto altrove (cfr. ad es. https://dirittifondamentali.it/wp-content/uploads/2020/06/Razzano-Nessun-diritto-di-assistenza-al-suicidio-e-priorit%C3%A0-per-le-cure-palliative.pdf), risulta discutibile, perché omologa due comportamenti eticamente differenti: la limitazione dei trattamenti sanitari e l’uccisione intenzionale di una persona. Ho sostenuto, inoltre, che nessuna persona dovrebbe essere considerata “suicidabile”, per le conseguenze profondamente discriminatorie che ne deriverebbero, contrarie alla dignità umana, alla pari dignità sociale e alla protezione dei soggetti vulnerabili.
Eppure tant’è. La sentenza della Corte costituzionale, piaccia o meno, è fondata sull’analogia fra la situazione di chi, ricevendo trattamenti di sostegno vitale, può interromperli, e quella di chi, trovandosi nella medesima condizione, desidera terminare la vita attraverso un farmaco ad azione rapida. Quello dei trattamenti di sostegno vitale è quindi un requisito insuperabile, pena l’irrazionalità della tesi sostenuta dalla sentenza n. 242/2019, che non è basata sulla prevalenza del principio di autodeterminazione su quello di indisponibilità della vita umana, ma sul ragionamento per cui, poiché il malato può interrompere legalmente i trattamenti di sostegno vitale e accogliere la morte, non gli può essere imposta un’unica modalità per congedarsi dalla vita e non gli si può negare di morire più rapidamente (considerato in diritto, 2.3). Peraltro la stessa sentenza di Strasburgo, come già visto, ha da ultimo riconosciuto che “fornire l’aiuto medico al suicidio a pazienti che non dipendono dai supporti vitali può dare luogo a ulteriori sfide e al rischio di abusi”.
Il ragionamento di Mori, per cui chi oggi vuole il suicidio ma non sta ricevendo trattamenti di sostegno vitale dovrebbe assurdamente ricorrervi per poi richiedere l’assistenza al suicidio, si basa su di un grande equivoco: quello per cui l’aiuto al suicidio sarebbe un diritto incondizionato. E si basa anche su di una falsa rappresentazione della realtà clinica: quella per cui la scienza medica e la farmacologia non sarebbero in grado di trattare il dolore. Egli, infine, tralascia del tutto una questione che è invece considerata essenziale sia dalla sentenza n. 242/2019, sia dal parere del CNB prima richiamato, ossia che le cure palliative e la terapia del dolore - qualificate dall’OMS un diritto umano fondamentale, garantite dalla legge 38/2010, ricomprese nei LEA - sono tuttora offerte in maniera disomogenea sul territorio nazionale. Perché non focalizzare l’attenzione su questa grave discriminazione fra i pazienti, che indubbiamente attiene alla loro dignità alla fine della vita?
Giovanna Razzano