la costituzionalista Giovanna Razzano (“I confini indispensabili del «sostegno vitale»”, Avvenire, 27 giugno 2024) prende spunto dalla Sentenza della Corte di Strasburgo Karsai v. Hungary (13 giugno 2024) per trattare la questione oggi da noi cruciale circa il “trattamento di sostegno vitale” (TSV), su cui è atteso il pronunciamento della Corte Costituzionale.
La Sentenza europea afferma che “la fornitura di morte medicalmente assistita a pazienti che non dipendono dal supporto vitale può dare luogo […] a un rischio di abuso”, e Razzano conclude che “per evitare abusi e rischi a danno delle persone vulnerabili, non è irragionevole fornire l’aiuto medico al suicidio solo a quei pazienti sofferenti che siano altresì sottoposti a trattamento di sostegno vitale. Diversamente, del resto, la circoscritta area di non punibilità di cui ha ragionato la Corte costituzionale diventerebbe un’area molto vasta perché diverrebbero “suicidabili” tutte le persone sofferenti con una malattia irreversibile, purché capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. Altrettanto accadrebbe se i trattamenti di sostegno vitale fossero intesi in modo indeterminato, fino a ricomprendere qualsiasi assistenza alla persona”, come riconosciuto dai vari giudici chiamati a decidere casi concreti.
Razzano, quindi, ci dice che persone che già soffrono terribilmente e senza scampo per la patologia e che vorrebbero uscire dalla condizione infernale in cui già si trovano anticipando la morte, dovrebbero soffrire ancora di più e farsi intubare e mettere mille fili e cateteri al solo fine di evitare presunti e non specificati possibili “abusi”. Nessuno sa bene che cosa sia un TSV e neanche le Società scientifiche ne danno una “definizione” precisa, ma tutti abbiamo in mente almeno la nota fotografia del paziente in rianimazione attaccato a molte macchine: con un’immagine quella foto dà l’idea di che cos’è l’essere tenuti in vita da TSV. Per Razzano si diventa “suicidabili” solo quando si è in quel tipo di condizione, per cui un paziente, che già soffre tantissimo in modo irreversibile e vuole morire per uscire da quella condizione infernale, dovrebbe prima farsi torturare ancor di più solo per essere ben sicuri che non ci siano “abusi”. E dice anche che tale soluzione “non è irragionevole”!
Passi pure un po’ di autocelebrazione, ma altro che “non irragionevole”: la proposta di Razzano è irrazionale, assurda e crudele. Mostra quanto il pregiudizio vitalista porti a essere malvagi, cioè pronti a fare il male, che sta nell’infliggere al paziente ulteriori sofferenze che non sono volute. Se un paziente inguaribile e senza scampo già soffre terribilmente, perché mai dovrebbe anche farsi “attaccare a una macchina” che lo fa soffrire ancora di più? Sarebbe “non irragionevole” perché ciò evita il rischio di “abusi”? Razzano, di “ragionevolezza” in questo ragionamento non se ne vede proprio neanche l’ombra! Forse sul piano psicologico un po’ di “ansia di sicurezza” e forti esigenze di rassicurazione. Quando già si è malati senza scampo e sofferenti, la fragilità si tutela sostenendo la volontà del paziente (anche di morire), non nell’imporre vincoli per realizzare l’impossibile sogno di tornare al prima della malattia. In quel contesto “abuso” è tutto ciò che ostacola o impedisce l’esercizio dell’autodeterminazione, non ciò che impedisce il ritorno ormai impossibile a una situazione ex-ante.
Essendosi forse accorta di averla sparata un po’ grossa, alla fine dell’articolo Razzano cerca sostenere la tesi osservando che quanto detto “non significa affatto ignorare o sminuire la sofferenza delle persone … ma riconoscere che è probabilmente parte della condizione umana che la scienza medica non sarà forse mai completamente capace di eliminare tutti gli aspetti della sofferenza di chi è malato terminale”. Insomma, non sarebbe per “cattiveria” che bisogna che ci siano i TSV, ma per questione di “natura”: è impossibile eliminare le sofferenze alla fine della vita e quindi (sempre per evitare gli “abusi”) va bene richiedere che se ne aggiungano un po’. E non contenta di quest’assurdità, perché di questo si tratta, conclude incensando la prospettiva presentandola come “un approccio essenzialmente umano”! Al di là del gioco retorico, la tesi di Razzano resta irrazionale, crudele e disumana. Anche l’International Code of Medical Ethics 2023 prevede che il primo dovere del medico è “promuovere la salute e il ben-essere del paziente” (non la “vita” astratta, ma il well-being) e tutelare la sua autonomia. È per questo che il TSV non è affatto lo strumento idoneo a prevenire possibili presunti (mai chiariti) “abusi”, ma può diventare fonte di ulteriori sofferenze non volute e inutili, e quindi esso stesso un “abuso”.
Per concludere: invece di segnare i “confini indispensabili”, sul tema dei TSV già si è bene espresso nel 2019 il Comitato Nazionale per la Bioetica laddove osservava che “la presenza di un trattamento di sostegno vitale è considerata una condizione aggiuntiva solo eventuale; ritenerla necessaria, infatti, creerebbe una discriminazione irragionevole e incostituzionale (ai sensi dell’art. 3 della Costituzione) fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora. Si imporrebbe, inoltre, a questi ultimi di accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio, prospettando in questo modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo ragionevole” (CNB, “Riflessioni bioetiche sul suicidio assistito”, 18 luglio 2019, p. 23).
Maurizio Mori