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I sanitari sono “tutti” dipendenti pubblici ma non allo stesso modo

di Calogero Spada

12 APR -

Gentile Direttore,
si stanno sempre più incrociando in questi giorni qui a QS diverse erudite analisi ispirate dalla pubblicazione del sempre più discusso d.l. n. 34/2023, dopo le considerevoli sue “mutazioni” dalla formulazione di bozza al testo effettivamente licenziato il 30 marzo 2023 ed entrato in vigore il 31, con la sua pubblicazione in G.U.

A fronte di molte acute considerazioni, quali quelle del dott. Falli ed approfondite analisi come quella del dott. Proia, emerge forse con maggiore efficacia un dato di fondo da sempre sussistente ma quasi mai opportunamente rimarcato, che rende forse meno rilevante la supposta «svolta storica» di tale d.l. , su cui ulteriormente (e giustamente) ora si affastellano le audizioni alle Commissioni riunite Finanze e Affari Sociali della Camera, nell’ambito dell’esame del corrispondente disegno di legge di conversione.

Tale dato forse più rilevante è quello della assimilazione – perché di ciò si tratta – del dipendente sanitario a dipendente pubblico, a norma del c. 2, art. 1 del citato d. lgs. 165/2001, noto come Testo unico del Pubblico Impiego – TUIP , in base al quale le amministrazioni, le aziende e gli enti del SSN sono amministrazioni dello Stato, il tutto anche se la riforma del titolo V Cost. attuata con la l. Cost. n. 3 , sempre del 2001, ha dato piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma denominata “Federalismo a Cost. invariata” – l. 59/1997.

Indipendentemente dalla opportunità o giustezza di tali scelte, resta evidente la determinazione di natura politica a tale conferimento, che dovrebbe risultare di applicazione omogenea e generica; pertanto il “dato di fondo” è che tutti i dipendenti sanitari sono dipendenti pubblici … medici compresi.

Ecco perché la madre di tutti i problemi riguardanti il regime libero professionale è proprio quella arbitraria (perché mai motivata) deroga alla «fedeltà assoluta» per i medici, cui al citato comma 7, art. 4 della l. 30/12/1991, n. 412.

Ecco perché senza ombra di dubbio ha ragione Proia ad affermare – alcune volte anche in mia compagnia, per le considerazioni sulla Sentenza Consulta n.54/2015 – di essere di fronte ad un «palese trattamento discriminante e quindi incostituzionale» e che «servirebbe una norma organica di ben altro tenore», dall’effettiva portata enormemente semplificativa (per tutti o per nessuno), per cui autenticamente storica.

Complementare a tutto ciò diventa anche quanto discusso nel merito della mancata «evoluzione nell’inquadramento giuridico del professionista» , discussa dal dott. Carboni, soprattutto nell’evidenziato squilibrio con vantaggio dei medici nella dirigenza delle amministrazioni pubbliche, per cui mancando anche una effettiva importante leva contrattuale si giunge ad una convergente «scarsa attrattività delle professioni sanitarie».

Ritengo queste due questioni - il trattamento di favore per i medici sulla libera professione ed una assenza di reale valorizzazione del ruolo e delle professioni sanitarie - i temi fondamentali e principali che andrebbero ora posti all’attenzione di un governo che fino ad ora (forse ricalcando ambiguità di precedenti legislature) sta soltanto scimmiottando norme dal tenore di ampia portata tecnica.

Qui nasceranno molti problemi, primariamente d’ordine normativo: ad esempio bisognerebbe mettere mano all’arcinoto art.6, l. 251/2000 ossia il vincolo per cui l’istituzione dei posti di DPS debba avvenire attraverso modificazioni “compensative” della preesistente dotazione organica complessiva aziendale, senza ulteriori oneri e ad invarianza di spesa; ma anche di tipo ordinamentale delle professioni, perché se è pure giusta la (peraltro storica) considerazione che è opportuno ritenere la funzione di coordinamento alla stregua di quella di un dirigente di primo livello nel contesto della dirigenza sanitaria, ciò impone anche rivedere sia la l. 43/2006, sia la riqualificazione di molti master che dal primo livello dovrebbero essere elevati al secondo, per cui l’accesso agli stessi (anche evitando ancor più problematiche sanatorie) sarebbe condizionato dal possesso del titolo di laurea quinquennale e non più triennale.

Ma all’orizzonte non si osservano molte circostanziate analisi di questo tipo …

Il tutto ricorda molto la famosa legge di Stabilità 2015 ed il suo comma 566. Sappiamo tutti come è andata a finire: i medici, malgrado le loro già – giustamente – vantaggiose caratteristiche contrattuali, hanno protestato veementemente, e tanto è bastato per non farne più nulla, con buona pace di tutti coloro che avrebbero davvero dovuto in quella fattispecie fare molto di più …

Forse la vera chiave di lettura sta nel proporre leggi (magari anche affiancate da logiche sulla contrattualità meno “filoaziendali” in sede decentrata) che trattino sistematicamente di codeste questioni e non attendere periodicamente provvedimenti da “cachet analgesico” di ampia incertezza (come dimostra il cambiamento dell’art 11 in art. 13 del d.l. del 30 marzo scorso) che poco o nulla centrano con l’organizzazione del SSN e del suo personale.

Dott. Calogero Spada

TSRM – Dottore Magistrale



12 aprile 2023
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