Per una nuova politica sulla disabilità
Alla politica il compito di riformare il sistema di welfare, ai tecnici (speriamo, illuminati), la ricerca di sinergie in modo da prendere davvero sul serio i bisogni delle persone più fragili e delle loro famiglie e ai medici e agli operatori del sociale, la voglia di cambiare e sperimentare forme di intervento non più basate sulle sole logiche prestazionali
15 MAG - Nonostante l’ampiezza delle fonti statistico-informative esistenti nel nostro Paese non sappiamo ancora quante sono realmente le persone disabili italiane e quali sono le loro principali caratteristiche.
L’Istituto centrale di statistica (l’ISTAT), con un’indagine effettuata qualche anno fa tramite l’intervista telefonica, ha indicato il loro numero in 2,6 milioni di unità alle quali sono da aggiungere le 161.000 persone non autosufficienti ricoverate a tempo pieno nelle strutture residenziali mentre altri accreditati
network informativi italiani le ha stimate in 4,5 milioni, la prevalenza delle quali (3,5 milioni) sarebbe concentrata nella fascia di età degli over65enni che, in oltre il 40% dei casi, vivono da soli.
Peraltro, come ammesso dall’INPS in occasione dell’audizione del 2014 in Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati, non ci sarebbero dati riguardo alle persone certificate con un handicap in situazione di gravità; nemmeno per difetto anche se poi lo stesso INPS ha stimato che in Italia ci sarebbero 3,1 milioni di persone con gravi disabilità funzionali (dati riferiti al 2013), un milione delle quali non percepisce però l’indennità di accompagnamento.
Oltre a ciò non sappiamo quante e quali sono le prestazioni assistenziali erogate perché, se pur esiste un casellario degli esborsi economici gravanti sull’INPS dovuti agli assegni, alle pensioni ed alle indennità di accompagnamento, nulla sappiamo riguardo agli interventi erogati dallo Stato a carico di queste persone poiché le relative voci di spesa sono frazionate e disperse.
Senza entrare nel merito delle cause di questi difetti conoscitivi, solo in parte riconducibili alla anacronistica frammentazione dell’invalidità, ciò che si deve ammettere è che la disabilità è un mondo solo in parte esplorato, stimato ancora in via presuntiva e con ampie fluttuazioni numeriche, del quale conosciamo davvero poco per non dire quasi nulla nonostante le opportunità che ci sono state offerte dalla digitalizzazione dei diversi settori della vita pubblica. Dove le banche dati esistono anche se i
software sembrano essere stati progettati dai diversi Gestori al solo scopo di non comunicare tra loro.
L’esperienza di Trento
Se questo è lo scenario generale, la nostra esperienza testimonia l’esigenza di valorizzare i data-base della Medicina legale pubblica essendo riusciti a realizzare l’Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trento e ad aggiornarlo periodicamente.
Con un triplice obiettivo: (a) quello di render conto del lavoro realizzato in un contesto assistenziale non di frontiera ma sempre più attivato dal cittadino e dalla sua rete familiare; (b) quello di costruire un casellario delle prestazioni non economiche riconosciute alle persone disabili; (c) quello di rendere i dati statistici fruibili all’organo decisorio politico ed alle Amministrazioni pubbliche territoriali cui è affidata la responsabilità delle scelte strategiche e la pianificazione dell’offerta dei servizi dedicati alle persone disabili.
La profilatura del bisogno espresso da queste persone è, così, per noi un’esigenza che, a partire dall’impegno quotidiano, si propone un traguardo più ambizioso in questo momento di profonda crisi finanziaria: quello di documentare i risultati della nostra fatica per difendere le istanze nobili del sistema di sicurezza sociale senza dimenticare che la disabilità è parte della nostra identità di genere e che la dignità dell’essere umano deve essere difesa e salvaguardata dall’indifferenza e dal cinismo oramai purtroppo globalizzati.
Senza riaprire la caccia alle streghe che il Ministro dell’Interno ha recentemente annunciato prevedendo pene più gravi per chi falsifica la disabilità e la radiazione dall’Ordine dei medici compiacenti
L’aggiornamento dei dati contenuti nell’Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trentodimostra:
- la presenza, nel data-base, di 28.201 persone (vs. 18.380 del 2013) che, a partire dal 1992, hanno presentato oltre 32 mila domande finalizzate ad ottenere i benefici e le agevolazioni assistenziali previste dalla Legge-quadro in materia di handicap;
- come quelle in vita alla data del 31 dicembre 2018 sono 15.612 (vs. 11.851 del 2013) con un numero, pertanto, di oltre 10 mila decessi registrati(nel lungo arco temporale che dimostra l’insstabilità del data-base a causa del progressivo invecchiamento della popolazione che lo compone;
- l’ulteriore incremento della domanda rispetto al picco massimo registrato nel 2012 con un tasso che, nel 2018, si è attestato sul valore del 33,4/10.000 abitanti;
- il progressivo ulteriore invecchiamento della popolazione che forma il data-base (le persone over65enni passano al 58,22%) e la graduale riduzione percentuale dei minori (dall’11,37% del 2013 al 10,17% del 2018) anche se, in questa fascia di età, continua ad essere prevalente la quota delle persone disabili riconosciute in situazione di handicap permanente e/o temporaneo con connotazione di gravità;
- come le donne disabili continuano ad essere mediamente più anziane rispetto ai maschi e come tale rapporto si inverta nella fascia delle persone minori dove prevalgano, invece, i disabili di sesso maschile;
- la presenza, nel data-base
, di una fascia non trascurabile di popolazione disabile in età prescolare: 1.362 (vs. 986 del 2013) sono stati, infatti, i bambini compresi in questa fascia di età per i quali è stato attivato il percorso assistenziale finalizzato all’accertamento dell’handicap per scopi diversi dall’integrazione scolastica;
- la prevalenza delle disabilità gravi visto che 6.663 (vs. 6.433 del 2013) sono le persone presenti nel data-base cui è stato riconosciuto l’handicap grave e 2.429 (vs. 1.636 del 2013) quelle riconosciute in situazione di handicap con carattere di permanenza e connotazione temporanea di gravità;
- la prevalenza delle malattie neurologiche che producono, a conferma dei dati dell’ISTAT, il più alto tasso di disabilità motoria anche nel nostro contesto territoriale ed il progressivo incremento di quelle psichiche (dei disturbi dementigeni in particolare) che, se esaminate in relazione alle persone over65enni, sono le patologie più frequenti;
- il riconoscimento, per i disabili gravi in vita, di oltre 13.500 benefici/agevolazioni assistenziali con un
trend in leggero ma continuo incremento rispetto agli anni precedenti: in 6.155 casi (vs. 5.814 del 2013) il permesso retribuito di tre giorni per fornire l’assistenza al genitore/parente/affine non ricoverato a tempo pieno, in 2.383 casi le agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente, in 961 casi il diritto del lavoratore di godere di due ore al giorno di congedo lavorativo retribuito ed in 736 casi il diritto del genitore o del familiare che assiste la persona disabile di non essere trasferita in altra sede di lavoro senza il suo consenso;
- la persistente disomogeneità di accesso al servizio erogato, per lo più attivatodai cittadini disabili (o dai relativi familiari) residenti nei grandi centri urbani rispetto a quelli residenti nelle comunità di valle;
- l’elevato impegno pubblico per questo settore di tutela che, in maniera molto approssimativa non esistendo alcun sistema di contabilità pubblica della spessa, supera in Provincia di Trento la somma di 60 milioni di Euro/anno per la sola voce che riguarda i congedi lavorativi.
Welfare, un privilegio che non possiamo più permetterci?
In questo momento di forte crisi di tenuta dei bilanci pubblici di tutti i Paesi occidentali ci si può chiedere se il nostro
welfare è un privilegio che non possiamo più permetterci come sembra affermare qualche sbadato economista o una conquista della democrazia moderna che deve essere difesa e, se possibile, rinforzata proprio a partire dalla conoscenza dei bisogni delle persone più fragili.
A me sembra sia proprio così e la nostra esperienza conferma che la Legge-quadro sull’handicap del 1992 è una buona legge ed un esempio di come il legislatore italiano sappia, qualche volta, anche guardare in avanti.
Per almeno due ordini di ragioni: in primo luogo perché con essa è stato interrotto quel (perverso) circuito assistenzialistico che pretende di dare una risposta alla disabilità con la sola erogazione di
benefits economici; in secondo luogo per aver indicato a tutti (professionisti compresi) un concetto moderno di disabilità, rendendolo indipendente da quelle variabili etiologiche che l’hanno gradualmente trasformata in mille rivoli diversi, considerandola uno stato aperto e dinamico ed un qualcosa il cui fenotipo è altamente instabile essendo essa il prodotto della disorganicità biologica e delle interferenze esercitate dall’ambiente in cui la persona vive.
Una buona legge, dunque, che ha voluto offrire una risposta ai bisogni di salute delle persone disabili non istituzionalizzate a tempo pieno per favorire la loro permanenza al domicilio e sostenendo, al contempo, i lavoratori impegnati nell’assistenza familiare delle persone disabili.
Non solo long term care
I dati elaborati, oltre a confermare l’esigenza di avere più informazioni sulla profilatura della disabilità, mi consentono di esprimere qualche ulteriore considerazione di carattere generale. Essendo necessario, a mio vedere, invertire da subito quella rotta di tendenza che ha privilegiato le forme di
long term care realizzate attraverso un forte investimento sulle strutture residenziali per gli anziani.
Ciò non solo a causa degli elevatissimi costi sociali ma anche perché questo investimento ha dimenticato che tra la domiciliarità e la residenzialità esistono altre forme di assistenza che occorre potenziare per sostenere la famiglia sia in condizioni di ordinarietà che di straordinarietà (con forme di sollievo).
Anche perché le moderne politiche sociali non possono dimenticare che, oltre alla persona disabile, l’impegno pubblico deve prioritariamente sostenere la famiglia che viene messa a dura prova dal carico assistenziale.
Non dimenticando che la struttura della famiglia italiana è profondamente cambiata negli ultimi decenni (non più allargata e dove la donna non assolve più a quella funzione di
maternage che la stessa ha esercitato per secoli) e che questa repentino cambio di struttura richiede di pensare al suo sostegno attuato non solo attraverso i trasferimenti monetari che, spesso, fungono da volano per la (de)responsabilizzazione di chi dovrebbe prestare assistenza.
A mio modo di vedere occorre, dunque, intervenire sulla domiciliarità senza però delegare alle famiglie il peso (e la solitudine) dell’assistenza che viene spesso affidata a personale poco formato in termini professionali e che bisogna, in qualche modo, specializzare pensando a formule di integrazione tra l’Ospedale (e le RSA) ed il territorio, valorizzando le risorse distrettuali e, soprattutto, il ruolo del medico di medicina generale e del pediatra di libera scelta.
Occorre, ancora, investire di più sui servizi di assistenza territoriale ed integrare quel formidabile sistema informale che è rappresentato dalle libere associazioni, dal mondo del volontariato e dagli enti con finalità religiosa all’interno di quel sistema a rete da più parti auspicato ma mai realizzato compiutamente, sperimentando formule spendibili di
long term care ad elevata integrazione socio-sanitaria senza bisogno di medicalizzarle; ciò richiedendo non solo la conoscenza dei bisogni, ma soprattutto la messa in rete dei servizi (sociali e sanitari), la loro capacità di adattarsi, flessibilmente, ai bisogni della persona disabile e l’impegno nel misurare gli esiti degli interventi realizzati non più in termini autoreferenziali.
Un’unica regia per sanità e sociale
Ed occorre, infine, individuare un’unica regìa istituzionale dedicata a questo settore della cura perché non è più possibile che il mondo del sociale e quello sanitario lavorino a compartimenti stagni, con linguaggi diversi e con finalità spesso non coincidenti: regìa che deve essere capace di cogliere i bisogni della persona per la loro presa in carico reale ed effettiva.
Rivedendo l’attuale modello organizzativo che, a parte qualche eccezione locale come la nostra, ha trasferito sull’INPS la valutazione della disabilità complicando la vita a tutti, disancorando la sua valutazione dalla presa in carico della persona.
Con una ipertrofia di professionisti che si sommano e si accavallano nei compiti valutativi, con un esborso irragionevole di denaro pubblico quando questi compiti possono e debbono essere affidati ad un solo medico specialista formato e ben indirizzato.
In questa direzione mi auguro si voglia andare con il coraggio delle idee e con la forza delle azioni assumendoci la nostra parte di responsabilità.
Alla politica spetta il compito di riformare il sistema di
welfare non già impoverendolo con i soliti tagli trasversali per fare cassa né annunciando nuove piste di caccia alle streghe.
Ai tecnici (speriamo, illuminati), la ricerca di sinergie in modo da prendere davvero sul serio i bisogni delle persone più fragili e delle loro famiglie.
Ai medici ed agli operatori del sociale, la voglia di cambiare, di sperimentare forme di intervento non più basate sulle sole logiche prestazionali, di misurare la loro
value in termini non autoreferenziali e la sensibilità di promuovere davvero i diritti delle persone più deboli assumendosene, in prima persona, la responsabilità.
Prof. Dott. Fabio Cembrani
Direttore U.O. Medicina Legale
Trento
15 maggio 2019
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