Gentile Direttore,
il fenomeno delle aggressioni ai danni di operatori sociosanitari ha assunto una dimensione allarmante: gli episodi di violenza, spesso perpetrati da pazienti o dai loro familiari, sono diventati una minaccia quotidiana per coloro che lavorano a stretto contatto con persone in condizioni di sofferenza e fragilità. Psicologi, medici, infermieri, assistenti sociali e altri professionisti del settore sociosanitario vedono costantemente messa a repentaglio la loro incolumità fisica, la loro serenità lavorativa e la loro salute psicologica. Ma il danno non è solo alle persone: gli episodi di violenza sono anche causa di malfunzionamento e danneggiamento dei servizi socio-sanitari.
Le cause degli episodi di violenza sono molteplici e complesse. Da una parte, vi sono cause legate alle caratteristiche dei pazienti: aggressività, prepotenza, pretenziosità, pregiudizi verso la sanità o il personale pubblico, disturbi mentali e abuso di alcool e sostanze.
Tuttavia, sarebbe un errore ridurre il fenomeno della violenza in contesto sanitario ad una mera inclinazione degli utenti alla violenza. La violenza in contesto lavorativo è un fenomeno di sistema, e come per gli incendi, che per scatenarsi richiedono un combustibile, un comburente (cioè un ambiente favorevole al fuoco) e un innesco, allo stesso modo gli episodi di violenza sono il risultato di una complessa interazione fra caratteristiche degli utenti, dell’ambiente e stimoli scatenanti o trigger.
Come organizzazioni abbiamo ridotta possibilità di agire sui fattori personologici degli utenti che accedono ai nostri servizi socio-sanitari, mentre abbiamo ampia possibilità di agire sull’ambiente e sui trigger. A livello scientifico vi sono riconosciuti fattori ambientali e organizzativi che possono favorire eventi di violenza in ambiente sanitario: l’affollamento, il disconfort, le attese prolungate, la mancanza di generi di confronto e acqua potabile, la mancanza di informazioni.
Tali fattori possono interagire con stati personali degli utenti che sono connaturati alla presenza in ambiente sanitario e che predispongono ad un aumentato livello di attivazione o stress, come la preoccupazione per se stessi o per i familiari, la costrizione in un ambiente promiscuo e non confortevole, il dolore fisico e psichico, la deprivazione di sonno o di acqua e cibo, e più in generale l’interruzione di una continuità esistenziale che sempre accompagna gli stati di malattia.
Il D.Lgs. 81/2008, testo unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro, prescrive ai datori di lavoro l’obbligo di valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Tuttavia, il testo non contiene alcun riferimento esplicito alla violenza come fonte di rischio. Si tratta di una grave lacuna, soprattutto alla luce della cronaca di questi ultimi anni.
È indispensabile un intervento legislativo che riconosca la violenza come rischio connesso all’ambiente lavorativo, e stabilisca regole e prescrizioni per valutarlo e gestirlo come qualunque altro rischio professionale. A livello normativo qualcosa si è mosso con la legge 14 agosto 2020 n. 113, tuttavia tale norma inasprisce le sanzioni per chi si rende colpevole di atti di aggressione verso i sanitari, ma non modifica la disciplina in materia di sicurezza sul lavoro. Il rischio è di qualificare gli atti di violenza in termini meramente moralistici o penalistici, con una focalizzazione sull’utente, che è uno solo degli elementi del fenomeno, dimenticando che la sicurezza sul lavoro è il risultato di un complesso di azioni correttive che tiene conto di tutti i fattori: personali, ambientali e organizzativi.
Una parte essenziale della prevenzione degli eventi di violenza è rappresentata dalla formazione al personale, che deve fondarsi sul presupposto che la violenza è un rischio ineliminabile e connaturato all’ambiente sanitario, che può essere prevenuto e gestito attraverso idonei presidi organizzativi e prassi comportamentali. La formazione dovrebbe permettere agli operatori di qualificare il fenomeno della violenza come un rischio lavorativo al pari del rischio di incendio o del rischio biologico, e metterli nella condizione di conoscere le procedure di base per prevenire e contenere i danni.
A livello organizzativo, gli episodi di violenza vanno poi considerati spie di possibili criticità nell’organizzazione e nell’ambiente di lavoro, e motori di politiche di miglioramento. Ogni episodio di violenza dovrebbe essere seguito da pratiche di defusing e debriefing, utili per prevenire il danno psicologico negli operatori ma anche per analizzare la catena degli eventi a comprendere le variabili intervenute nell’episodio e ad adottare misure correttive. Questa metodologia consentirebbe non solo di prevenire il ripetersi di tali episodi, ma anche di migliorare le condizioni di lavoro complessive, aumentando il livello di sicurezza e benessere per tutti gli operatori.
La violenza nei confronti degli operatori sociosanitari non è solo un problema di sicurezza sul lavoro, ma anche un fallimento del sistema sociale nel proteggere chi si occupa della salute delle persone. È necessario un vero e proprio cambiamento culturale, che veda la violenza in contesto sanitario come un malfunzionamento da prevenire in una logica di sistema.
Federico Conte,
Federico Zanon,
Vicepresidente Enpap