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L’assistenza medica al morire mette in crisi l’identità professionale dei medici? 

di Lucia Craxì

17 LUG -

Gentile Direttore,
tre valori delle società democratiche occidentali rappresentano un’efficace lente per indagare il ruolo dei medici nel processo di cura e in particolare nell’assistenza medica al morire: tutela della vita, solidarietà e libertà.

La tutela della vita è fondamento di qualsiasi società umana destinata a durare: se il gruppo sociale non presenta tra i propri obiettivi primari quello di tutelare la vita dei propri membri, per sua natura è destinato a una rapida estinzione. Tale assunto è stato fatto proprio da molte religioni monoteiste che sono state, tra le altre cose, nel corso della storia, strumento di gestione della società e di promozione di comportamenti reputati utili (basti pensare alle prescrizioni igieniche o dietetiche), trasformando tali obblighi sociali in precetti di fede. Questo passaggio rappresenta un momento essenziale per comprendere come un valore così rilevante in una società umana possa essere in alcune religioni diventato un assoluto che non ammette eccezioni: tale è il caso della confessione cattolica, che ha reso la tutela della vita un fondamento irrinunciabile di qualsiasi azione umana.

Un secondo valore rilevante è quello della solidarietà umana, anch’esso elemento chiave di un gruppo sociale ben funzionante, che ha visto nel corso dei secoli una complessa e interessante evoluzione. Tale valore ha portato, tra le altre cose, allo sviluppo della nozione di stato sociale e costituisce uno dei principi cardine della nostra costituzione.

Ultimo ma non meno importante, il valore della libertà, con particolare riferimento alla libertà nelle scelte personali. Tale valore, per certi versi più giovane, costituisce il fondamento degli stati democratici moderni, nonché uno dei nuclei fondanti dell’affermazione della libertà della persona nelle scelte che riguardano la propria vita e il proprio corpo.

Risulta subito chiaro che tali valori possono risultare in conflitto l’uno con l’altro in alcuni casi, come ad esempio nelle circostanze in cui una persona richieda di accedere alla morte medicalmente assistita o richieda l’interruzione di trattamenti che la mantengono in vita.

Se consideriamo il ruolo storicamente attribuito ai medici e alla medicina, possiamo constatare che esso ha goduto lungamente di uno stato di grazia in cui i due valori chiave della tutela della vita e della solidarietà umana convergevano sostanzialmente senza contrasti nell’azione del medico che operava sempre per la tutela della vita e per il ripristino della salute. Il medico tutelava la vita e portava a compimento azioni che erano frutto di un operato ispirato al valore della solidarietà umana.

Tale perfetto equilibrio ha iniziato a incrinarsi nel momento in cui, all’indomani della Seconda guerra mondiale, e poi con sempre maggiore forza a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, hanno iniziato ad assumere un ruolo sempre più centrale il valore della libertà individuale della persona nelle scelte che riguardano il proprio corpo e un’interpretazione sempre più marcatamente soggettiva della nozione di dignità.

Con l’emergere sempre più marcato di tale valore, che è divenuto in larga misura parte della morale di senso comune, la medicina ha visto mettere in discussione il proprio ruolo e i propri obiettivi primari, ovvero è stata posta di fronte alla necessità di ripensare profondamente sé stessa e di scegliere quale peso dare ai tre valori in gioco nei casi in cui essi entrassero in conflitto. La scelta ad oggi compiuta sembra essere una scelta in larga misura conservativa: pur nel riconoscimento della libertà della persona, l’azione del medico, ma ancor di più la sua identità professionale, continua ad essere improntata sostanzialmente alla tutela della vita e alla solidarietà.

Nel necessario bilanciamento dei valori che la professione medica è stata costretta negli ultimi decenni a compiere, la libertà della persona di scegliere per se stessa sembra avere ancora un ruolo ancillare, soprattutto laddove essa entri in contrasto con la tutela della vita.

Eppure la spinta culturale sempre più forte nella direzione della tutela della libertà di scelta della persona ha progressivamente eroso nell’opinione comune i confini invalicabili che la medicina aveva posto come argini del proprio operato, attribuendo di fatto un valore preminente al valore della libertà di scelta. Prima il diritto alla rinuncia a trattamenti che mantengono in vita e poi la pratica della morte medicalmente assistita sono divenuti non solo oggetto di norme giuridiche e/o sentenze che le hanno rese lecite, ma anche atti in larga misura accettati dall’opinione pubblica e dati per acquisiti.

Va inoltre evidenziato che nel corso degli ultimi decenni, con sempre maggiore forza, si è affermata l’idea di una attenzione al processo di cura come atto che guarda sempre di più alla persona nella sua interezza, ai suoi valori, alle sue relazioni e al tessuto sociale in cui questa si muove. Il passaggio al paradigma del prendersi cura – sebbene esso si sia realizzato spesso più sul piano della forma e delle proposizioni, che su quello delle azioni concrete –, sembra essere ormai concordemente accettato dalla professione medica. Cosa però significhi effettivamente prendersi cura della persona e non curare solo la malattia non è sempre chiaro. L’impressione è che l’etica medica, puntando ad attribuire un peso maggiore alla tutela della vita e alla solidarietà, piuttosto che alla libertà, di fatto continui ad attribuire all’idea del prendersi cura un connotato oggettivo, che rende legittimo in alcune circostanze non tutelare fino infondo i valori e la dignità della persona curata. Questo significa però contravvenire di fatto, non solo al valore della libertà, ma anche a quello della solidarietà. Cosa è infatti la solidarietà umana se non l’aiutarsi nel rispondere alle esigenze dell’altro? Che tipo di aiuto è opportuno dare a una persona? Quello che noi riteniamo necessario o quello che la persona chiede? Esiste davvero un unico modo di aiutare o l’aiuto dovrebbe essere commisurato ai desideri e ai bisogni della persona che stiamo aiutando? L’impressione è dunque che di fatto anche la solidarietà, così come la libertà personale, nelle circostanze in cui esse entrino in contrasto con la tutela della vita vengano messe entrambe in subordine. Si può sostenere che tale modo di esercitare la solidarietà sia, di fatto, poco solidale e profondamente individualistico. Tutto finisce con l’essere uniformato agli ideali del medico e alla ricerca di una conferma di una identità professionale che non sempre rispecchia la volontà della persona, né tanto meno i valori della società moderna.

Nei giorni scorsi la giornalista Alessandra Comazzi ha pubblicato uno splendido articolo (La Stampa, 12 luglio 2024) in cui racconta del proprio percorso di malattia e di come la fede e i medici l’abbiano accompagnata in un percorso di cura, ma anche di ricerca di senso, di ascolto e di comprensione. In queste circostanze, a fronte di una condizione gravissima ma reversibile e di una persona con una salda volontà di rimanere in vita e una profonda fede, i tre valori in gioco convergevano perfettamente e confermavano il ruolo, l’identità e la missione dei medici. Se la storia però fosse stata diversa, se si fosse trattato di una condizione irreversibile e di una persona che reputava le sofferenze che sopportava intollerabili, pur in assenza di trattamenti di sostegno vitale (dunque non in una condizione di “morte sospesa”), la narrazione sarebbe stata certamente meno semplice, univoca ed eroica.

Dovremmo forse interrogarci sull’opportunità di provare a rinunciare a tale eroica narrazione del ruolo dei medici, a ripensare il loro ruolo e la loro missione in modo molto più profondo e a comprendere che nella realtà concreta delle scelte i valori si bilanciano e talora entrano in subordine, purché si mantenga come unico faro il prendersi cura e il guardare davvero alla persona, ai suoi valori e alla sua volontà.

Lucia Craxì

Bioeticista, Università degli Studi di Palermo
Vicepresidente della Consulta di Bioetica



17 luglio 2024
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