Gentile Direttore,
il tema sanità sembra avere sfondato il tetto di cristallo e parole come incremento della spesa, numero e retribuzioni degli operatori, liste di attesa e rinuncia alle cure dei cittadini escono dal circuito ristretto degli addetti ai lavori per assumere la dignità di una priorità della finanziaria 2024 e di una annunciata iniziativa parlamentare per “salvare il servizio sanitario nazionale”.
Forse è la prima volta negli ultimi 15 anni che un Presidente del Consiglio indica la sanità tra le priorità di una manovra economica. E non certo per tagliare, anche perché non c’è più niente da tagliare. Una scelta dettata certo dal dilagare della insoddisfazione dei cittadini in merito ai servizi sanitari ma anche dalle iniziative delle organizzazioni sindacali della dirigenza medica e sanitaria che, da nove mesi, riprendendo parole d’ordine mai dismesse negli anni, stanno denunciando nelle piazze e sui media la negazione del diritto costituzionale alla salute in favore di una “privatocrazia” che ne affida la esigibilità al reddito.
Eppure, un fantasma continua ad aggirarsi. Malgrado sia ampiamente dimostrato che il libero accesso alla facoltà di medicina sia “una toppa peggiore del buco” alla attuale carenza di medici specialisti (Di Silverio, Liuzzi, QS, 8 settembre), Presidenti e Assessori regionali sono intenti, con perseveranza degna di miglior causa, a perseguire questo obiettivo, in nome di una presunta negazione del diritto allo studio. E, quel che è peggio, lo contrabbandano come automatica soluzione a tutti i mali della sanità italiana, l’ennesima ricetta magica. In un abbraccio bipartisan, il veneto Zaia, che un giorno vuole gli 80enni in corsia e l’altro l’abolizione del numero chiuso, viene affiancato dall’emiliano Bonaccini che, alzando per un momento la testa dai guai del PD, e di quella che fu la “migliore sanità d’Italia”, si dichiara d’accordo. E in Campania, il Consiglio Regionale, approva all’unanimità un provvedimento a favore dell’accesso libero a Medicina. Parafrasando Mario Monti, se ci fosse una “tassa sul populismo” avremmo annullato il disavanzo del Paese.
La crisi della sanità pubblica, tra sottofinanziamento (spesa sanitaria pro-capite in ultima posizione nel G7), liste di attesa infinite, collasso del sistema di emergenza-urgenza, fuga di medici e infermieri arriva finalmente alla attenzione del Governo e del Parlamento. Ma le Regioni continuano a focalizzarsi su un provvedimento temporalmente sfasato rispetto alle criticità attuali, con “risultati” visibili tra 10 anni, e capace di avviare il Paese a divenire la Cuba del Mediterraneo, formando a spese dei contribuenti italiani medici che saranno costretti a lavorare altrove.
Un’abolizione del numero chiuso che non tenga conto dell’incremento notevole del numero di iscritti a Medicina registrato nel periodo 2018- 2023 e del vicino esaurimento degli effetti della gobba demografica, produrrà insieme imbuto formativo, se non si adegueranno anche i numeri, e i costi, della formazione post laurea, e imbuto lavorativo, per mancanza di sbocchi lavorativi a una marea montante di medici.
Una schizofrenia politica che rende urgente una ridefinizione dei rapporti istituzionali e di governance tra Stato, Regioni e Province autonome (PA) per rilanciare il servizio sanitario come sistema unitario nazionale, prima che l’autonomia differenziata realizzi la rottura definitiva.
Costantino Troise