Gentile direttore,
i giovani medici non vogliono più fare i chirurghi. La conferma arriva dal Congresso ACOI, in corso a Roma, cui ho partecipato intervenendo alla sessione dedicata ai giovani: solo quest’anno sono andate perse circa 200 borse di studio. Non bastano acclamate serie televisive e l’aura affascinante che tutt’oggi avvolge il chirurgo “che salva vite” a convincere i giovani ad intraprendere questo percorso. È l’impatto con la realtà del mestiere a portarli su altre strade. D’altra parte, come biasimarli?
Durante la Scuola di Specializzazione gli aspiranti chirurghi ricevono una formazione spesso insufficiente, prendendo in mano un bisturi solo in poche occasioni e passando gran parte del tempo a guardare altri operare. Quando da un giorno all’altro entrano in ospedale, molto spesso vengono sfruttati per coprire i buchi causati da anni di tagli, che hanno portato al blocco del turnover e alla carenza di personale: passano le giornate in Pronto soccorso o a coprire i turni notturni e festivi in reparto, restando quindi sempre lontani da quel tavolo operatorio con cui dovrebbero prendere dimestichezza e distanti dal lavoro dell’equipe di cui dovrebbero far parte, perdendo anche in questo caso l’occasione di imparare dai colleghi con maggiore esperienza.
Poi ad un certo punto vengono catapultati in sala operatoria con la responsabilità di operare un paziente senza aver avuto la necessaria formazione sul campo. E se qualcosa va storto, vengono anche ritenuti responsabili del proprio errore, spesso con odiosi processi mediatici. Nessuno andrà mai a controllare in che modo la loro formazione negli anni precedenti sia stata ritenuta da più parti trascurabile.
Conclusa la Specializzazione, devono iniziare a fare i conti con la realtà: premi assicurativi tra i più alti nel panorama sanitario a causa di un elevato rischio di contenzioso; possibilità pressoché nulle di aspirare ad una progressione di carriera, dato che solo il 7% diventerà responsabile di UOC e l’11% di UOS. I pazienti sono sempre più esigenti ed esasperati da liste d’attesa infinite, causate dalla riduzione di strutture e dell’offerta sanitaria: tra il 2010 ed il 2020 sono stati tagliati 11.874 posti letto di chirurgia generale. La rabbia dei pazienti quindi spesso e volentieri sfocia in aggressioni – sia fisiche che legali – che colpiscono chiunque possa essere ritenuto responsabile del problema e si trovi a portata di mano: chi meglio del medico?
Insomma, il quadro non è dei più rosei, e non stupisce il fatto che a tutto questo molti giovani preferiscano andare nel privato o all’estero, dove senz’altro non è tutto oro quel che luccica, ma quantomeno le retribuzioni e la qualità della vita sono ancora tutelate.
Appare evidente dunque come, in questo scenario, il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro che stiamo discutendo in questi mesi ricopra un ruolo fondamentale: ci siamo opposti con tutte le nostre forze ad una serie di orrori che ci erano stati proposti, ottenendo alcuni ottimi risultati sia sul fronte dei fondi contrattuali che delle relazioni sindacali e del rapporto di lavoro. Stiamo continuando a trattare il delicatissimo tema dell’orario di lavoro, e ci siamo posti come obiettivo principale quello di modularlo in modo da migliorare la qualità della vita di tutti i medici, facendo pagare alle Aziende ogni ora di lavoro fatta oltre il proprio orario. Ma abbiamo anche chiesto che almeno il 30% dei turni sia svolto nel proprio reparto di appartenenza, e non a fare la guardia al posto letto tanto per tappare i buchi. Vedremo come andranno i prossimi incontri, ma la Federazione CIMO-FESMED firmerà il contratto solo se riusciremo ad ottenere questi risultati fondamentali per frenare la fuga del personale dal Servizio sanitario nazionale ed evitarne, dunque, il collasso. Con la speranza che anche il contratto possa contribuire a migliorare le prospettive di lavoro dei giovani che desiderano, nonostante tutto, salvare vite.
Guido Quici