Gentile Direttore,
da diversi anni, ci si interroga su quella che Trisha Greenhalgh – sulle pagine del BMJ – definì la “crisi della evidence-based medicine”, crisi che secondo un altro autorevole e conosciuto clinico e ricercatore – John Ioannidis – era da imputare a una sorta di “dirottamento” del percorso tracciato ormai trent’anni fa da chi nel 1992 formulò i principi fondanti della medicina basata sulle prove. Il dialogo su questi temi ha trovato spazio anche su Quotidiano sanità, sia grazie agli interventi di Ivan Cavicchi, sia ai commenti ai suoi libri che sono giunti negli ultimi mesi.
Negli ultimi due anni, la pandemia ha ulteriormente scosso i principi della Ebm dal momento che – trattandosi di un’emergenza nuova – medici e infermieri hanno dovuto fronteggiare i quadri clinici che si presentavano loro facendo appello soprattutto alla propria esperienza e al ragionamento clinico, non disponendo di letteratura specifica. Allo stesso tempo, la figura dell’Esperto – che chi si ispira alla Ebm si augurava fosse stata messa alla porta – è rientrata prepotentemente dalla finestra, contribuendo a disorientare non solo i cittadini ma anche il personale sanitario.
A riaccendere ulteriormente la questione è stato poi un nuovo interessante articolo, uscito il mese scorso anch’esso sul BMJ a firma di John Jureidini e Leemon McHenry, due medici australiani autori un paio di anni fa di un libro molto documentato dal titolo esplicito: The illusion of evidence-based medicine. Ma la posizione di Jureidini e McHenry parte da premesse non convincenti, spiegano Marina Davoli e Luca De Fiore in un articolo uscito sul nuovo progetto dell’Ordine dei Medici di Torino, ilpunto.
La prima premessa fallace riguarda la convinzione che la proposta dalla Ebm abbia rappresentato un cambio di paradigma. In realtà, con la proposta dei principi della medicina delle prove non c’è stato alcun “salto” o cambiamento radicale di prospettiva. Al contrario, la proposta era l’esito naturale di una riflessione partita dal secondo dopoguerra nella medicina e nella sanità pubblica soprattutto di Scuola anglosassone. Secondo, troppo spesso si “riduce” la Ebm alla selezione, valutazione e applicazione dei risultati della ricerca alla cura del paziente o alla definizione di politiche sanitarie. Ma la Ebm è molto di più e lo spiegava anche Dario Manfellotto in un post uscito su Quotidiano Sanità. L’Ebm è un processo che da comprende diversi passaggi – dalla riflessione clinica alla valutazione delle evidenze fino alla condivisione delle scelte col paziente – ma soprattutto è un percorso in divenire che è stato oggetto di riconsiderazione nell’intero arco degli ultimi trent’anni.
Basti pensare al lavoro del GRADE Working Group internazionale – di cui il Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario del Lazio ASL Roma 1 diretto da Marina Davoli è centro di riferimento per l’Italia: il gruppo ha sviluppato una specifica metodologia di valutazione della qualità degli studi non randomizzati ed è in procinto di pubblicare un importante paper sulle strategie per ottimizzare l’uso dei trial randomizzati e non randomizzati nella sintesi delle evidenze. Inoltre, sempre nell’ottica di offrire strumenti utili a governare le grandi sfide contemporanee, si è costituito un gruppo specifico GRADE che ha pubblicato una serie di linee guida per la salute ambientale e occupazionale.
Il buon medico è dunque quello che – anche lavorando in rete con i propri colleghi – conosce metodi e risultati della ricerca clinica metodologicamente rigorosa, è capace di distinguere le vere dalle false novità, di filtrarla alla luce della propria esperienza e di aprirsi alla narrazione del paziente facendosi “contaminare” dalle sue aspettative e dal suo punto di vista. È questo il “paradigma” della medicina contemporanea, l’insieme delle regole di riferimento per i professionisti sanitari e dei criteri utili per vivere da medico. Da bravo medico.
Tiziano Costantini