Inizia oggi in Senato l’iter di conversione del Ddl sull’autonomia differenziata presentato dal Ministro Roberto Calderoli per concedere maggiori poteri alle Regioni su 23 materie, tra cui la sanità. Di fatto, una legittimazione della esistenza di più sistemi sanitari, a diversa efficacia e sicurezza, a scapito del carattere nazionale voluto dalla L.833/78. Un tema introdotto in Costituzione dal centro-sinistra (2001) che il Governo in carica utilizza in una logica di scambio interno alla sua maggioranza, anche a scapito di quella “coesione nazionale” caposaldo della sua azione mediatica.
Nella tutela della salute esistono forti diseguaglianze tra le Regioni, specie lungo la faglia NORD-SUD, in merito all’accesso alle cure ed ai suoi esiti: aspettativa di vita (minore al Sud di 4 anni), mortalità evitabile (maggiore al Sud), speranza di vita in buona salute (20 anni tra i due estremi), mortalità infantile (doppia al Sud). Con il paradosso di una mobilità sanitaria che, secondo la Corte dei Conti, ha sottratto in un decennio 14 miliardi di euro alle Regioni del Sud, che percepiscono meno risorse dal FSN. Alla faccia della Legge 833/78, che pone tra i suoi obiettivi il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese, e in barba all’articolo 32 della Costituzione.
Il Ddl concede alle Regioni che danno allo Stato più di quanto ricevono (tutte al nord), la possibilità di trattenere più gettito fiscale. Un extra finanziamento stimato in circa 10 mld che potrebbe alimentare prestazioni sanitarie aggiuntive per i loro cittadini, una sorta di LEPs di prima categoria, rendendo la tutela della salute funzione del reddito e della residenza. In violazione del principio costituzionale di uguaglianza, chi risiede in Regioni “forti” si curerà, gli altri potranno solo aspettare in liste di attesa che ormai si misurano in semestri se non in anni. O migrare. Senza contare che più gettito a livello locale significa meno risorse disponibili a livello centrale per garantire un livello omogeneo di prestazioni essenziali.
I poteri concessi alle Regioni dalla autonomia differenziata in sanità non sono pochi: dalla mano libera su tariffe e tickets alla gestione dei fondi integrativi, con il rischio del risorgere di un sistema mutualistico-assicurativo, dalla governance delle aziende, con la possibilità di un sistema arlecchino, all’istituzione di quel contratto lavoro a scopo formativo per gli specializzandi che Governo e Università si ostinano a negare a tutto il sistema nazionale. Senza escludere l’avvio di una concorrenza selvaggia nell’acquisizione delle risorse umane con la nascita di un mercato competitivo per l’ingaggio dei professionisti, nutrito dal dumping salariale e dalle incentivazioni regionali, che rischierebbe di mettere una “pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale “(GIMBE).
I LEPs, vale a dire la soglia costituzionalmente necessaria per rendere effettivi i diritti civili e sociali, devono essere determinati e finanziati con risorse che lo Stato deve assicurare a ciascuna Regione. Ma, come farà un sistema indebitato e sottofinanziato, che esplicitamente esclude “aggravi” per la finanza pubblica, a colmare la differenza del 25% di spesa sanitaria individuale tra Nord e Sud? Regioni in partenza al di sotto della soglia minima di LEPs non potranno mai recuperare terreno.
Si sta giocando una partita fondamentale per il futuro del Paese. Sottrarre al diritto alla salute una dimensione nazionale per favorire egoismi territoriali mette in crisi la sanità pubblica, la coesione sociale e la stessa unità del Paese. Senza che nemmeno esistano evidenze, come rilevato dalla Corte dei Conti, per affermare che ulteriori gradi di autonomia nelle disponibilità economiche e nella gestione delle risorse, aumentino il grado di efficienza dei servizi erogati.
Siamo di fronte, in sostanza, ad un siluro sparato non solo contro il SSN, “presidio insostituibile di unità del Paese”, secondo il Presidente Mattarella, ma anche contro un’idea unitaria di Repubblica e di Stato. Inevitabilmente destinato ad amplificare le diseguaglianze di un sistema sanitario avviato lungo la china di una privatizzazione silenziosa, fino a cristallizzare, in maniera irreversibile, il divario tra Nord e Sud. Proprio quando l’Europa chiede con il PNRR di ridurre le diseguaglianze territoriali e il ministro Schillaci ritiene “i gap che ci sono tra regione e regione, addirittura sull'attesa di vita, completamente inaccettabili in una nazione moderna”.
L’Anaao ribadisce la propria contrarietà ed opposizione. La nostra voce continuerà a sentirsi in attesa che altre voci si uniscano per evitare il colpo di grazia al welfare state del nostro Paese. O a quel che ne resta.
Pierino Di Silverio