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Coronavirus. Cosa ci sta insegnando questa epidemia

E’ immaginabile che d’ora in poi sarà obbligatorio dotarsi di adeguate scorte di dispositivi di protezione. Lo stesso si può dire delle attività assistenziali territoriali dove molti operatori socio-sanitari. Tutto ciò deve farci non solo riflettere ma rivedere e validare  nuove ed efficaci procedure di gestione del rischio clinico, estendendole a tutto il mondo socio-assistenziale del territorio, evitando l’improvvisazione e il pernicioso fai da te

di Paolo Stocco
17 MAR - Non si sono ancora studiati gli effetti dell’epidemiologia psicologica prodotta da un virus, ma una cosa è certa: stiamo tutti imparando molto da questa durissima lezione. Nel volgere di qualche settimana il nostro paese è stato sconvolto da una prova di terza guerra mondiale. Non una semplice esercitazione ma un  vero test di   guerra batteriologica con impatto non sulle nostre forze armate ma  sul sistema sanitario.
 
Una prima riflessione riguarda il fatto che questa drammatica virosi ancor prima di diventare respiratoria ha offuscato la mente di molti di noi e inevitabilmente anche di coloro che hanno funzioni e responsabilità di  assumere delle decisioni. Dobbiamo ammettere che la carica virogena del SARS-CoV-2 si presenta organicamente asintomatica per molti di noi, tuttavia, nelle prime fasi dell’evento epidemico il virus ha  certamente contribuito a destabilizzare  l’intelletto e le capacità cognitive  che stanno alla base della capacità di produrre delle scelte razionali previsionali.
 
Nelle settimane cruciali di esordio dell’epidemia si è infatti innescato un lungo cortocircuito sociale che non solo  ha coinvolto la classe politica, ma in parte anche la stessa  comunità scientifica medica. Tutto questo ci ha indubbiamente fatto perdere tempo prezioso ed ha inevitabilmente confuso le persone. Un disorientamento aggravato dall’affastellarsi delle opinioni più disparate sui social media. Mentre il Covid-19 si moltiplicava, il paese si divideva, ognuno seguendo liberamente propri autonomi convincimenti e oscillando fra ottimismo e pessimismo.

Dovremo tenerne conto in futuro. Ciò implica una spiacevole quanto essenziale considerazione: quando si verifica un evento epidemico catastrofale, in grado di mettere a rischio la salute dei cittadini e di far collassare le strutture ospedaliere, i principi dell’ordinamento democratico alla base della nostra libertà di scelta ai quali siamo indissolubilmente legati, purtroppo rischiano di diventare disfunzionali. In questi drammatici casi la pluralità di competenze istituzionali e strutture decisionali ripartite fra comuni, aziende sanitarie, regioni e governo e la necessità di concertare pareri e decisioni, mediando fra inevitabili e distinte sensibilità, determinano un ingorgo ed un rallentamento decisionale che si dimostra essere nocivo agli interessi della salute collettiva.   
 
Come rimediare? Innanzitutto perfezionando democraticamente delle procedure emergenziali da assumere in simili casi, come in una sorta di triage epidemico, assegnando dunque le competenze decisionali ad un organo tecnico scientifico in collegamento con le autorità sanitarie internazionali. Un nuovo organo dello Stato composto da scienziati e presieduto dal Presidente della Repubblica, affiancato dal Presidente del Consiglio e dal Ministro delle salute, al quale possa essere delegato  il compito di valutare autonomamente il grado di rischio epidemico e indicando al  governo le misure necessarie da adottare.
 
La temporanea struttura di governance emergenziale, dovrebbe dunque essere unica e tempestiva. Una seconda considerazione riguarda il Risk Management. In questi ultimi decenni ci si è giustamente concentrati alla gestione del rischio clinico in ambito ospedaliero.
 
Questa epidemia ci richiama alla responsabilità di lavorare maggiormente nel prossimo futuro in ambito socio-sanitario. Vanno codificate procedure e automatismi di azione anche a livello locale, per tutelare al meglio le persone fragili ospiti di strutture assistenziali.  In queste settimane si è assistito ad una serie di provvedimenti contraddittori- per altro assunti da diversi soggetti: Enti gestori, amministrazioni comunali, aziende sanitarie e regioni - che riguardavano:
• i centri di servizi per anziani, dapprima mantenuti aperti per le attività diurne per non gravare sulle famiglie, successivamente chiusi ma non trovando forme alternative di assistenza;
• le case di riposo dapprima aperte ai visitatori, quindi aperte con deroghe e infine chiuse;
• il personale di assistenza dapprima con indicazioni di operare senza i dispositivi di protezione individuale e successivamente con obbligo dei dpi, ma senza poterne reperire nel mercato.
 
E’ immaginabile che d’ora in poi sarà obbligatorio dotarsi di adeguate scorte di dispositivi di protezione. Lo stesso si può dire delle attività assistenziali territoriali dove molti operatori socio-sanitari, si pensi agli educatori, psicologi, logopedisti, psicomotricisti, fisioterapisti, neuropsichiatri infantili che hanno continuato ad erogare prestazioni a bambini con disabilità e ai loro familiari in piena fase di espansione epidemica, senza alcuna indicazione sulla protezione dai rischi per i pazienti e per  se stessi. Tutto ciò deve farci non solo riflettere ma rivedere e validare  nuove ed efficaci procedure di gestione del rischio clinico, estendendole a tutto il mondo socio-assistenziale del territorio, evitando l’improvvisazione e il pernicioso fai da te.
 
Paolo Stocco
Direttore di Federsanità Anci Veneto


17 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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