Il tempo di comunicazione è tempo di cura
di Ornella Mancin
11 DIC -
Gentile Direttore,
il consenso informato in parte nasce come bisogno di normare un nuovo modo di relazionarsi tra medico e paziente, in un contesto di società dove l’”autorità” non è più riconosciuta come tale (non lo è più nella scuola, non lo è più neanche tra le mura domestiche). L’evolversi della medicina, le possibilità di cura sempre più estreme e un paziente sempre più esigente hanno sancito di fatto la nascita del consenso informato.
Il paziente “esige” di conoscere che tipo di malattia ha, quali sono le possibilità terapeutiche e quale la sua evoluzione.
Il consenso informato è quindi conseguenza di un cambiamento sociale che coinvolge il vivere civile nella sua totalità e non solo il mondo sanitario.
Perché allora viene vissuto dai medici spesso come un ulteriore carico burocratico da compiere?
Credo che la causa stia in quanto scritto dal prof. Cavicchi nel suo ultimo interessantissimo intervento (
QS 7 dicembre).
“Le norme soprattutto deontologiche che parlano di consenso informato ignorano del tutto che esso prima di essere informazione è relazione”.
Il consenso informato oggi viene considerato come una serie di informazioni che il medico, dall’alto delle sue giuste conoscenze scientifiche, trasferisce al malato; malato che dal canto suo, pur volendo conoscere tutte le implicazioni della sua malattia, spesso non possiede gli strumenti idonei per capirne il significato.
Il consenso informato è spesso ridotto a un elenco di eventi avversi da sottoporre al malato perché sia edotto di tutti i possibili effetti collaterali dell’eventuale intervento terapeutico, pertanto “è importante che il modulo informativo citi anche la più recondita e imprevedibile possibilità legata al trattamento medico-chirurgico”(
QS Cavalli 25 novembre)”, in modo che non si scopra che proprio quello che si dovesse avverare non era stato citato.
E’ ovvio che questo tipo di consenso informato non giova a nessuno, al massimo può servire (ma non è sempre detto) a mettersi al riparo da qualche accusa di malpractice.
“L’etica ridotta a legalitàsta a testimoniare la presenza di una rottura storica nei rapporti tra medicina e società e di una importante crisi fiduciaria. L’informazione nel consenso informato diventa semplicemente il mezzo per avere un’autorizzazione formale” (Cavicchi).
Riversare sul paziente tutta una serie di informazioni tecniche non può costituire un vero consenso informato, il quale per essere tale va costruito all’interno di una relazione medico paziente. Il consenso informato è frutto di una relazione che si prende carico di una situazione.
Non può bastare la “necessità scientifica” che ovviamente giustifica l’agire del medico, è necessario che questa sia contestualizzata, perché il malato non ha solo necessità “scientifiche” ma anche “esistenziali”.
Nella mia esperienza di medico di famiglia mi è capitato di dover dedicare molto tempo e attenzione per “convincere” un anziano paziente in buone condizioni di salute ad affrontare un intervento di colectomia sx con necessaria e permanente stomia per un tumore del retto. Per me e per il collega chirurgo che mi aveva chiesto di aiutarlo a far capire l’importanza dell’intervento al paziente, si trattava di un intervento risolutivo che non poteva non andare fatto. Per il mio paziente quasi ottantenne che viveva solo, accettare la stomia significava un tale cambiamento di vita che preferiva morire.
Non sempre abbiamo il tempo o la conoscenza del contesto situazionale nel quale collocare le nostre informazioni. In questo caso non è stato sufficiente descrivere il tipo d’intervento e i possibili effetti collaterali: si è reso necessario calarsi nel vissuto e nelle difficoltà che il paziente temeva di incontrare nel post operatorio.
Può anche capitare che una chemioterapia che noi pensiamo potenzialmente devastante possa essere affrontata coraggiosamente da una madre di famiglia nella speranza di sconfiggere la malattia , mentre magari un uomo single riterrà meno conveniente il trattamento a fronte di un periodo certo di vita con relativo benessere.
Le scelte dell’individuo , pur a fronte delle medesime evidenze scientifiche, non sono sempre identiche e sovrapponibili.
“Con-senso non significa istruire un malato sul trattamento necessario, a cui sarà sottoposto, ma al contrario significa costruire con lui delle scelte circa le sue diverse necessità.”
Il guaio è che purtroppo non sempre si ha il tempo e la serenità necessaria per costruire una relazione che porti a un vero consenso.
Chi opera in sanità sa benissimo quali sono i problemi che gravano sulla professione medica, conosce i ritmi di lavoro, ne conosce le tempistiche e anche le paure che gravano sugli errori medici. Chiedetevi “dice il prof. Cavicchi “in quali situazioni oggi si trovano i medici che lavorano? Siete sicuri che le situazioni nelle quali essi operano siano quelle giuste per il consenso informato?”.
Lavorare per rendere il consenso informato espressione vera di adesione, significa lavorare perché il medico sia messo nelle condizioni di costruire una vera relazione medico paziente che diventi una solida “alleanza terapeutica”.
Per questo serve un recupero di autorevolezza su cui l’intera professione deve impegnarsi e un tempo da dedicare all’ascolto e alla comunicazione con il paziente perché come è scritto nel Codice deontologico (art.20/2014) e ha rimarcato recentemente la Presidente Fnomceo
Roberta Chersevani, “Il tempo di comunicazione è tempo di cura” .
In una società che cambia costruire un buon consenso informato che non sia solo mera formalità significa saper mediare tra conoscenze scientifiche e nuove istanze sociali, significa impegnarsi a conoscere il contesto in cui si opera per poter calarsi nelle situazioni di vita, significa avere il tempo e lo spazio per costruire una relazione di cura.
Forse è molto impegnativo, ma “non si può continuare ad essere medico allo stesso modo se cambia la società in cui si vive”.
Ornella Mancin
Medico di famiglia
Cavarzere (VE)
11 dicembre 2017
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