Gentile Direttore,
“Il governo del lavoro spetta a chi il lavoro lo fa”. Questo sarebbe il principio fondamentale di ogni buona organizzazione sociale dei servizi. La politica ha permesso la mortale codificazione burocratica del lavoro che viene deciso da chi il lavoro non solo non lo fa, ma nemmeno lo conosce. Piccola storia personale a titolo dimostrativo: lavoro come medico di base da 30 anni, sarei quella figura operativa sul territorio di primo impatto con ogni genere di patologia, dal mal di denti ai tumori fino alla gestione della senescenza con le patologie croniche croce e delizia di una sanità che deve fare i conti con una mole sempre maggiore di disagi legati all’età.
Sarebbe logico pensare che tutto il servizio sanitario nazionale venga aperto e chiuso dai medici di base, gli esami, le prescrizioni farmaceutiche, le visite specialistiche, i ricoveri, l’assistenza post ricovero, le certificazioni, fino all’ultimo atto con la constatazione di decesso, sono attività del medico di base. Altrettanto logico sarebbe pensare ad una particolare attenzione dello Stato verso la medicina del territorio, perché si tratta del fulcro di tutto il sistema sanitario, ma in questi 30 anni ho sempre ricoperto il ruolo della Cenerentola nel castello. Nessun riconoscimento di ruolo, nessun aiuto amministrativo, nessun incentivo riconosciuto, pur lavorando in montagna, territorio, impervio, ostile, sparso e diffuso su distanze impensabili in città, da un estremo all’altro del mio territorio ci sono quasi 30 chilometri da percorrere, spesso con le catene e una grande dose di fortuna.
I rapporti con la mia “azienda” sanitaria sono sempre stati distanti, distaccati, burocratici e con l’impressione di essere più un fastidio che una risorsa umana, tranne una sola eccezione, la valida, gentile e sempre disponibile dottoressa Giusi Da Pra, dirigente medico del Distretto di Pieve di Cadore e cadorina Doc.
Per il resto, di umano c’è stata solo la mia reazione di rabbia quando sono stato persino multato dalla polizia municipale per aver parcheggiato fuori dalle strisce davanti al mio ambulatorio,
perché tutti i posti erano occupati dai miei pazienti, una legge può essere imperfetta ma applicarla stupidamente è il marchio della burocrazia ed è grave, il peggior male del nostro paese. La mia fama di fastidiosa rotella dell’ingranaggio si è consolidata con il rifiuto aziendale di riconoscermi una indennità di disagio, con il rifiuto di inserirmi in una medicina di gruppo con i colleghi di Cortina perché ho evidenziato che in montagna servono gli ambulatori periferici e non quelli centrali come in città. Fama di rompiscatole consolidata quando sono stato richiamato e redarguito dalla mia azienda per aver manifestato pubblicamente tutto quello che non funziona.
E’ sotto gli occhi di tutti la drammatica realtà di una comunità di 45000 residenti di una regione montana come il Cadore senza servizi e senza ospedale, perché come definire ospedale un edificio in cui mancano una ginecologia, una pediatria, una chirurgia, una psichiatria...è talmente lampante da non essere visto nemmeno dalla politica locale che continua ad adagiarsi sulla proverbiale e atavica capacità di sopportazione dei cadorini, sempre vissuta a cavoli e patate, cosa c’è di nuovo?
E’ drammatico avviarmi verso la pensione con la certezza che in questi anni nessuno abbia saputo vedere e curare un cancro istituzionale con tante metastasi regionali: una politica autoreferenziale lontana dalla gente, non più come servizio ma a servizio di se stessa, adagiata su una macchina burocratica cieca e arrogante che funziona da sola con regole demenziali a tutela solo del sistema e mai della gente.
La pagheranno cara i nostri figli, pagheranno le nostre colpe e non ci perdoneranno, avendo ragione.