Le politiche farmaceutiche e i fondi per l’innovazione: come garantire la sostenibilità?
di Federico Spandonaro
Pensare di agire ancora indiscriminatamente sui prezzi rischierebbe di sancire la fuoriuscita dell’Italia da un’area di mercato, con conseguenze industriali, e quindi occupazionali, nefaste. Occorre invece ridefinire le priorità pubbliche, salvaguardando un giusto equilibrio fra esigenze finanziarie e tutela (equa) della salute
11 APR - Il sistema di governance della spesa farmaceutica in Italia è certamente uno dei più efficaci a livello mondiale: come è noto, la definizione a priori di un tetto alla spesa, e il successivo meccanismo del payback, in sostanza trasferiscono tutto il rischio sull’industria, che compete al suo interno sulle sole quote di mercato (in verità a parte il 50% residuo di ripiano di eventuali “sfondamenti” della farmaceutica ospedaliera, cui sono chiamate a rispondere le Regioni).
L’efficacia è dimostrata dal fatto che sinora ha sostanzialmente funzionato: malgrado il trasferimento di rischio di cui si è detto, la negoziazione dei prezzi fra AIFA e industria ha continuato a caratterizzarsi per accordi decisamente convenienti, tanto da aver portato la spesa farmaceutica pro capite italiana ben al di sotto della media europea (escludendo i Paesi dell’Est); e, come è ben noto, la riduzione della spesa farmaceutica è stata rilevante, così da contribuire in modo essenziale al contenimento complessivo della crescita della spesa sanitaria totale.
La questione che si pone, con urgenza visto l’arrivo di innovazioni importanti sia sul piano clinico che su quello finanziario (testimonianza ne sono ad esempio le nuove terapie per l’HCV e HIV) è se però tale sistema possa ancora “reggere” nel futuro.
Su questo piano, in effetti, appare evidente che il sistema di governance ha sinora tenuto perché è riuscito in qualche modo a contemperare esigenze tipiche della politica assistenziale e necessità connesse con la politica industriale.
Queste ultime richiedono, quanto meno, che non si rinunci a una qualche misura di crescita ed, in particolar modo, all’accesso al mercato dell’innovazione: anche perché a fronte del rapido invecchiamento della popolazione, l’innovazione ha un ruolo cruciale nella prospettiva della sostenibilità futura del sistema.
Se il meccanismo ha punti potenzialmente deboli, ci sembra allora che debbano cercarsi proprio sul versante dell’accesso all’innovazione. Tralasciando per brevità, le problematiche relative alla definizione stessa di innovazione, e quelle legate ai ritardi regionali nel successivo inserimento nei loro prontuari, quindi con essenziale riferimento al meccanismo dei company budget e del relativo payback, è evidente che quello che viene comunemente indicato come il fondo per l’innovazione, di fatto ha natura virtuale: il “premio” riconosciuto all’innovazione è niente più che una “sterilizzazione” degli sforamenti del tetto; per dirla più semplicemente, l’azienda produttrice del farmaco riconosciuto come innovativo non “pagherà” la sua quota di payback in caso di sforamento, avendone quindi un maggiore vantaggio, ma sempre in termini di quote di mercato erose ad altri produttori. Erosione peraltro difficile, per effetto del sovrapporsi dei tetti di prodotto e dei vari meccanismi di payment by results.
Non c’è, quindi, oggi un vero fondo vincolato per l’innovazione: la ragione è che la natura del sistema di governance si basa sulla determinazione a priori di un budget fisso, stabilito in quota percentuale della spesa sanitaria, oltretutto in una logica di spesa per silos che non permette osmosi con altre voci assistenziali.
In caso di innovazioni con un budget impact rilevante, questo approccio implica che il sistema possa dimostrarsi “incapiente”: d’altra parte, questo è il “prezzo da pagare” sull’altare del controllo finanziario; problema che non si pone nei sistemi di governance dei Paesi che adottano un budget variabile, regolato definendo un threshold di accettabilità sociale del costo incrementale implicito nelle innovazioni.
In questi ultimi Paesi (che chiamerei i QALY Countries), il tasso di variazione della spesa è funzione del tasso di innovazione; si noti che nei Paesi a budget fisso (Non-QALY Countries), come il nostro, è invece funzione della crescita della spesa sanitaria (e, quindi, presumibilmente del PIL).
Appare evidente che il problema “non esplode” finché (senza pretesa di esaustività):
• il PIL cresce abbastanza da generare un aumento adeguato del budget farmaceutico;
• il budget dei prodotti maturi si riduce (vedi genericazioni);
• non arrivano innovazioni che impattano in modo rilevante dal punto di vista finanziario.
Tutte e tre queste condizioni si sono verificate nel passato, quando il sistema è stato impostato; allo stato attuale appare, però, probabile una discontinuità: la spesa sanitaria cresce ormai meno dell’inflazione e, mantenendo fisso il tetto della spesa farmaceutica, questo si tradurrebbe in una manciata di euro di incremento (se ci sarà); l’onda delle genericazioni è praticamente esaurita e sui biosimilari è tutto da dimostrare l’impatto che avrà (se non altro perché la competizione è molto minore); della terza si è già detto.
Il sistema peraltro “scricchiola” già da tempo: basti constatare che la scarsità di risorse ha frenato i consumi dei farmaci innovativi, tanto da non raggiungere il “tetto del fondo”, e neanche quello di prodotto: se tanta “prudenza” nelle prescrizioni dovesse derivare da diffidenza dei clinici verso l’innovazione, dovremmo concludere che assistiamo ad un rilevante e preoccupante gap fra le valutazioni dell’AIFA e quelle dei professionisti; ma, data la prudenza che è stata usata nel concedere la patente di innovatività, sembra più facile concludere che l’incapienza del fondo complessivo dell’ospedaliera ha generato disincentivi effettivi, spesso burocratici, alla diffusione dell’innovazione.
La proposta di un fondo nazionale. Questa, con altre, è una considerazione che è posta alla base delle proposte avanzate in varie sedi, che ventilano l’opportunità di estrapolare il fondo farmaceutico da quello sanitario nazionale, magari affidandolo all’AIFA.
Confesso che l’ipotesi non mi convince, e per vari motivi; senza alcuna presunzione di esaustività, citerei: in primis perché disconoscerebbe l’importanza del ruolo regionale, sebbene vada certamente ricondotto agli aspetti organizzativi e di appropriatezza, evitando che esiti invece in duplicazioni di valutazioni; poi, perché sancirebbe definitivamente la logica dei silos, come se la politica farmaceutica potesse essere decisa indipendentemente dal contesto; infine, perché se mai l’idea originaria fosse stata quella di dare garanzia di maggiori risorse, non si vede perché l’estrapolazione dovrebbe portare vantaggi (anzi…).
Piuttosto, mi pare che potrebbe avere senso discutere se un fondo nazionale per l’innovazione (eventualmente ripartito dall’AIFA sulla base dell’appropriatezza di utilizzo), vincolato, possa avere il pregio di garantire che non si blocchi l’accesso al mercato (salvaguardando le esigenze industriali), di assicurare che non si sacrifichi l’innovazione per evitare sforamenti dovuti ad un uso inappropriato dei farmaci maturi (difendendo la qualità dell’assistenza e la tutela della salute), e ancora di poter pianificare recuperando una parte di flessibilità e quindi di variabilità del budget (senza che questo distrugga l’attuale sistema di governance).
Il problema delle risorse. Sempre che la proposta sia considerata degna di una qualche attenzione, dato che “nulla si crea e nulla si distrugge”, la questione fondamentale è dove trovare le risorse per alimentare un eventuale fondo vincolato.
Ovviamente una ripresa economica rimane la situazione più auspicabile (ma, in tal caso, il sistema di governance ha già dimostrato di funzionare sufficientemente bene senza bisogno di grandi modifiche); in caso contrario, sarà comunque difficile pensare di poter trovare risorse realmente aggiuntive, che non siano generate da razionalizzazioni dell’esistente.
In questa ottica, sono due o tre le “fonti” da cui ritengo si possa, o si debba, attingere.
Senza un preciso ordine di priorità, la prima è quella delle prestazioni che non hanno un rilevante valore sociale: in tale ambito ritengo vadano comprese le terapie e le prestazioni a basso costo mensile, che incidono in modo molto modesto sui budget familiari: non si tratta solo di terapie farmacologiche; effettivamente anche l’esenzione dalla compartecipazione per patologia, in alcuni casi implica erogare terapie del valore di € 10-20 mensili, che per redditi medio alti hanno un “valore sociale” molto modesto.
È nota la difficoltà di far funzionare in Italia “la prova dei mezzi”, ma il tema non è più procrastinabile: se non siamo in grado di dare i servizi prioritariamente a chi ne ha davvero bisogno, il sistema universalistico perde le sue caratteristiche di equità ed è meglio tornare a sistemi mutualistici, persino sul piano della giustizia distributiva.
In ogni caso, personalmente sarei ben felice di pagarmi tutto o in parte (in base alla possibilità) una terapia da € 10-20 al mese (magari pure una tantum) se questo mi permettesse di avere eventualmente accesso ad una terapia davvero innovativa che ne può costare € 30.000-40.000 (e il riferimento non è affatto casuale).
L’altra fonte di possibile razionalizzazione è quella di rivedere i prezzi di alcuni farmaci che sono entrati in tempi diversi nel sistema: il rischio è che, a parità di beneficio, per le terapie più recenti (a causa dei crescenti vincoli finanziari) siano state negoziate condizioni via via più restrittive, ovvero “rendimenti” calanti in base al beneficio apportato; azzarderei l’ipotesi che ci siano sacche di iniquità ad esempio in campo oncologico, dove la costo-efficacia (pur scontando in qualche modo valutazioni distributive o di altro genere) sembra non rispondere ad un disegno complessivamente ordinato.
Infine, perché non smontare le artificiali barriere fra voci di spesa e, specificando ipotesi specifiche e ben delimitate, destinare i risparmi effettivamente realizzati (ad esempio in campo ospedaliero, con riduzioni di degenza etc) ai settori che li generano?
In altri termini, attendendo che la crescita delle economie emergenti, trattandosi in prospettiva di potenziali (enormi) mercati anche di consumo farmaceutico, da causa della crisi delle economie mature si trasformi nel medio periodo, per effetto della legge della domanda e dell’offerta, in una opportunità di riduzione del prezzo delle innovazioni; ci dobbiamo nel breve attrezzare per affrontare una fase critica per le politiche farmaceutiche: pensare di agire ancora indiscriminatamente sui prezzi rischierebbe, a mio parere, di sancire la fuoriuscita dell’Italia da un’area di mercato, con conseguenze industriali, e quindi occupazionali, nefaste; meglio è aprire rapidamente un dibattito responsabile, teso a ridefinire le priorità pubbliche, salvaguardando un giusto equilibrio fra esigenze finanziarie e tutela (equa) della salute.
Federico Spandonaro
Università di Roma Tor Vergata, Presidente CREA Sanità
11 aprile 2014
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