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Solitudine, salute e welfare

di S. Scelsi, A. De Belvis, G. Banchieri, A. Vannucci

La paura dell’altro come portatore di malattia si è incardinata nelle nostre pratiche sociali e inconsapevolmente ci siamo tutti ammalati. Ma questo deriva dalla pandemia? Oppure la pandemia ha accentuato e sanitarizzato un processo che era iniziato prima di essa, congenito alla natura della società del tardo capitalismo e del ventunesimo secolo?

08 NOV -

“La solitudine non è solo assenza di persone. È la mancanza di scopo, la mancanza di significato. Quando ti vedi in un mondo dove tutto sembra alienato e distante, dove ogni connessione è superficiale e ogni sforzo di comprendere è accolto con indifferenza, ti accorgi che la vera solitudine non è solo essere soli, ma sentirsi soli in un mondo che ha perso di significato” Haruki Murakami

Premessa Con la pandemia da SARS-COV-2 la “solitudine” - attraverso il suo termine sanitario “isolamento” - ha subìto una inversione di significato.

Essere isolati, da soli, distanziarsi fisicamente dalle altre persone ha, almeno in parte, ha smesso di essere visto in maniera stigmatizzante ed ha assunto per certi versi un tratto quasi salvifico. La paura dell’altro come portatore di malattia si è incardinata nelle nostre pratiche sociali e inconsapevolmente ci siamo tutti ammalati. Ma questo deriva dalla pandemia? Oppure la pandemia ha accentuato e sanitarizzato un processo che era iniziato prima di essa, congenito alla natura della società del tardo capitalismo e del ventunesimo secolo?

Nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva definito la “salute” “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Si trattava di un approccio che definiva salute non come assenza di malattia, bensì come condizione soggettiva dell’individuo. Allo stesso tempo la “salute” veniva riconosciuta come un “diritto fondamentale di ciascun essere umano senza distinzione di razza, religione, credenza politica, condizione economica o sociale

Questa definizione di salute supera la visione tradizionalista che definiscono la salute in termini puramente biologici. Questa, infatti, non distingue il benessere fisico del proprio corpo dal benessere più generale, psichico e sociale dell’individuo in quanto “persona”.

La definizione dell’OMS, quindi, afferma l’intrinseca relazione tra il sé e il corpo, rendendo il benessere del primo indistinguibile dal benessere del secondo, tenendo conto del più generale quadro entro il quale gli individui agiscono le proprie vite. Questa definizione tiene anche conto della diversa importanza assegnata da individui diversi a uguali condizioni fisiche: una stessa condizione può essere poco significativa per una persona e risultare, invece, invalidante per la vita di un’altra.

Il secolo della solitudine …
Sulla scia di Zygmunt Bauman [1], Noreena Hertz nel suo “Il secolo della solitudine” [2] sostiene che la solitudine sia un prodotto della disgregazione del senso di “comunità” imposta da decenni di sviluppo senza limiti e condizioni del neoliberismo/globalizzazione, che ha portato a vederci l’un l’altro come individui e non come gruppi sociali, comunità e collettività, trasformandoci così da “esseri sociali” in piccole monadi che competono tra loro.

Come una “medicina”, la tecnologia è rimedio e cura perché ci permette di risolvere problemi, sperimentare cose precedentemente impensabili, e per alcuni aspetti semplificarci la vita., ma allo stesso tempo, è anche un “veleno”, perché mentre lo fa, ci contamina, avvelenando la nostra (presunta) condizione sociale ed umana originale. Come un medicinale, la tecnologia presenta possibili controindicazioni. Leggere attentamente le avvertenze. Cosa che, invero, con la tecnologia nel sociale capita molto raramente.

In questa prospettiva di lettura del nostro contesto di vita Noreena Hertz rappresenta un contributo importante nel farci capire le relazioni esistenti tra solitudine e agire sociale, e ci invita a non semplificarne la narrazione. Toccando questioni fondamentali come il lavoro e la democrazia, Hertz evidenzia il cortocircuito esistente nell’architettura del tardo capitalismo ed in specie nel suo stadio terminale, sottolineando la necessità di un ripensamento complessivo. Non è un caso che in tutte le Università più prestigiose sia in atto ormai una riflessione su come governare la “globalizzazione” non più vista come una prospettiva di sviluppo lineare ed evolutiva. Tutto queste dinamiche in essere impattano sulle condizioni di vita e di salute delle persone, salute intesa come equilibrio psico sociale

Numerose ricerche internazionali hanno dimostrato che la solitudine aumenta di 1/3 lo sviluppo di malattie neurologiche e di patologie disabilitanti. In USA i servizi sanitari hanno denunciato l’impatto sociale ed economico e di salute della solitudine. OMS ha dichiarato la solitudine “problema di salute pubblica globale” (2024).

La solitudine proxy di patologie invalidanti ….
Tre adulti su cinque negli Usa si considerano soli. In Europa la situazione è simile: quasi un terzo dei cittadini olandesi ha ammesso di essere solo, uno su dieci profondamente; in Svezia un quarto della popolazione ha detto di essere solo frequentemente; in Svizzera due persone su cinque hanno dichiarato di sentirsi a volte, spesso, o sempre sole; nel Regno Unito il problema era diventato talmente grave che nel 2018 il Primo Ministro è arrivato al punto di nominare un Ministero della Solitudine.
In Italia una survey pubblicata sul “Corriere della sera” ci dà uno spaccato inedito anche nel nostro Paese.


Nel nostro Paese il 55% delle persone si dichiarano a volte o spesso sole. Non è un problema solo di anziani soli. Il 68% delle persone tra i 18 e i 64 anni (popolazione attiva) si sente a volte sola e il 32% soffre di solitudine (1 su 3). Sempre in Inghilterra si sta sviluppando il “social prescribing”, ovvero il medico che non prescrive solo farmaci, ma gruppi di camminate, compagnie di conversazione al bar, eventi di ginnastica, incontri per l'elaborazione del lutto. Attività terapeutiche contro la solitudine è la filosofia adottata. La cittadina di Frome, cittadina di 30 mila abitanti è diventata famosa come "la città che ha sconfitto la solitudine"… l’esperienza si sta diffondendo e ora in Inghilterra sono stati formati già 3.600 operatori ... i primi dati sono molto interessanti per ogni sterlina investita in prevenzione sociale il NHS ne risparmia 6 di cure tradizionali …. più inclusione, meno malattie e patologie neurodegenerative e invalidanti.

Gli anziani sono la categoria a cui siamo portati a pensare per primi quando riflettiamo su chi siano i più soli tra noi. Eppure, in realtà, e forse sorprendentemente, i più soli sono proprio i giovani. In quasi tutti i paesi dell’Ocse la percentuale di quindicenni che dicono di sentirsi soli a scuola è aumentata tra il 2003 e il 2015. Anche in questo caso è ipotizzabile un incremento anche a causa del Covid-19, ma non solo …

Quanto sopra è la risultante della solitudine strutturale creata dal modello di sviluppo che condividiamo, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici.
È l’isolamento provato dalle persone che si sentono trascurate e tradite dai propri rappresentanti e dalle istituzioni, al punto di lasciarsi sedurre dal richiamo del populismo e degli estremismi politici.

Vedi i livelli incredibili di assenteismo dal voto in molti Paesi “sviluppati”.
È l’anziana signora giapponese che fa in modo di farsi arrestare per un reato minore, per poter trovare in carcere una forma di comunità.
È il mondo parallelo e incontrollato dei social network, dove l’io si occulta dietro una maschera.
È l’emarginazione sul posto di lavoro, dove il lavoratore si percepisce come un ingranaggio insignificante.
È la solitudine speciale delle metropoli, dove possiamo ordinare centinaia di menu in consegna a domicilio, ma non sappiamo il nome del nostro vicino di casa.

Non è fantapolitica … a Milano si stanno costruendo quartieri per single, appartamenti con parcheggi protetti e ascensori al piano. "Milano come vuoi tu". Vedi la Cascina Merlata, vecchio quartiere del capoluogo lombardo diventato oggi il simbolo di un nuovo modo di abitare. Appartamenti di ogni dimensione, garage personale, niente negozi, scuole, chiese o qualsiasi tipo di funzione pubblica. È l'idea della città fatta esclusivamente di case, in una metropoli dove il 55% della popolazione vive da sola e il prezzo delle abitazioni in 10 anni è aumentato del 44%. Siamo insieme soli con le nostre solitudini. Lo sviluppo delle forme di violenza interpersonale e auto punitiva cresce progressivamente. Le cronache dei quotidiani sono lo specchio di queste dinamiche perverse … non solo in Italia, ma in molti Paesi “sviluppati”

Le nostre vite “perdute”
“Il secolo della solitudine” di Noreena Hertz è, quindi, il racconto dolente della condizione in cui ciascuno di noi è venuto a trovarsi e insieme un appello a reagire contro le distanze siderali che si infiltrano nelle nostre vite, infettando come un virus tanto la salute dei nostri corpi e delle nostre menti quanto le strutture stesse della società̀.

È una sfida a trasformare questa economia in un sistema più̀ sostenibile attraverso interventi mirati dall’alto e dal basso, come maggiori investimenti nel welfare, ricostruzione delle comunità̀ locali, banche del tempo e condomini solidali. È un invito a riscoprire e cementare i valori della collaborazione e dell’altruismo: la celebrazione del singolo non come atomo isolato, ma come parte integrante di una comunità̀.

Inoltre non è possibile assecondare la tendenza a ridimensionare e sottovalutare la questione climatico-ambientale che sta condannando a condizioni di vita proibitive le generazioni future, ovvero, i nostri figli e nipoti.

Eludere nei ragionamenti il “fattore antropico” è grave perché priva le persone di una chiave di lettura che può rappresentare l’unica via di salvezza. È necessario spiegare l’origine dello squilibrio in cui si trova il pianeta e questo è possibile solo attraverso la spiegazione di come è strutturata la società, dei conflitti sociali, degli interessi economici e dei rapporti di potere che regolano l'appropriazione irrazionale delle risorse del pianeta. Altrimenti l’approccio “One Health” diventa solo una elucubrazione vuota …

La solitudine che stiamo vivendo nel ventunesimo secolo copre uno spettro molto più ampio della sua definizione tradizionale. Non è solo il sentirsi privi di compagnia o intimità, e nemmeno il sentirsi ignorati, invisibili o trascurati da coloro con i quali si interagiva regolarmente. Si tratta di sentirsi anche senza sostegno e cura da parte dei nostri concittadini, dei datori di lavoro, della comunità, del governo. È l’essere distanti non solo da quelli a cui dovremmo sentirci vicini, ma anche da noi stessi.

Non è solo la mancanza di sostegno in un contesto sociale o familiare, ma anche sentirsi politicamente ed economicamente esclusi, include anche quando ci sentiamo tagliati fuori dal nostro lavoro e dal nostro ambiente lavorativo. Le cause dell’odierna crisi di solitudine sono varie e numerose. Rientrano gli smartphone e tutti quei dispositivi digitali che ci isolano dal mondo reale, ma vanno annoverate per certo le discriminazioni strutturali e istituzionali, di natura razziale, etnica, xenofoba, sessista, sul lavoro come nella quotidianità.

Vite reali e vite virtuali... il rito del consumo Un ulteriore tema, collegato con il diffuso senso di solitudine attuale, è il progressivo isolamento dal mondo reale per rifugiarsi nella realtà virtuale della rete e dei social.

Quest’ultimi in particolare trasformano i cittadini in “bugiardi” sempre più insicuri alla continua ricerca di “mi piace”, follower e prestigio sociale “online”, cittadini incoraggiati a presentare versioni sempre meno autentiche di sé stessi. Le vite condivise “online” sono un’accurata serie di momenti felici e ideali, feste e celebrazioni, spiagge di sabbia bianca e foto di piatti da acquolina in bocca.

Il problema è, sottolinea Hertz, che queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla nostra vita reale.

L’economia della solitudine ha iniziato a espandersi – e non solo nella sua forma tecnologica – con gli imprenditori che hanno trovato modi sempre più innovativi per soddisfare il perenne bisogno della gente di ciò che il sociologo del primo Novecento Émile Durkheim chiamava “effervescenza collettiva”, ovvero il lieto inebriamento che otteniamo quando facciamo qualcosa con gli altri, di persona (in palestre, club, pub, ritrovi, circoli, sale da ballo, gite, escursioni, etc…)

Tuttavia, queste innumerevoli attività intraprese per colmare un vuoto esistenziale con il loro “inebriamento” di certo non possono bastare per sconfiggere l’isolamento, la solitudine di questo millennio. Non si può essere contrari a questo genere di attività per definizione, bensì quando vengono utilizzate per sfruttare il senso di solitudine delle persone per mero scopo di lucro.

Le due pandemie del nostro millennio sono, non a caso, i disturbi del comportamento alimentare e quelli dello spettro autistico … L’”uomo economico”, teorizzato dalla cultura neoliberale, è diventato oggi una realtà vivente. Immersi come siamo sin dalla nascita in Istituzioni sociali e culturali, la scuola e il mercato, la produzione e il consumo, i media e l’intrattenimento, l’amministrazione pubblica e la politica, le quali tutte operano intensivamente, abbiamo sviluppato in massa una personalità che ci fa agire come uomini la cui esistenza è finalizzata al consumo.

Pensiero critico e nuovo umanesimo …
Papa Francesco in tutte le sue Encicliche ha posto sempre con forza alcune considerazioni.

Viviamo tutti sullo stesso pianeta … siamo nella stessa barca … ci salviamo solo insieme … dobbiamo amare il prossimo e includerlo … dobbiamo amare e rispettare la natura … la chiesa degli ultimi …”

Uno dei maggiori tra i problemi che oggi si pongono all’interno di una civiltà globalizzata a livello planetario sta nella pressoché totale scomparsa di soggetti che siano in condizione di distanziarsi da esso; ossia di vederlo, di giudicarlo dall’esterno, al caso prendendosi la libertà di resistervi, attraverso proposte e modelli culturali alternativi. Manca una cultura critica e una capacità di leggere le contraddizioni del presente.

Servirebbe necessario e imprescindibile costruire un futuro completamente diverso, in cui conciliare il capitalismo con la comunità, assicurandosi di ascoltare molto di più le persone di qualsiasi estrazione e nel contempo venga consentito loro di avere una voce, esercitando la comunità in una forma inclusiva e tollerante. Più in generale, sarebbe necessario un cambio di mentalità. Bisogna ritrasformarsi da “consumatori” a “cittadini”, da egoisti ad altruisti, da osservatori indifferenti a partecipanti attivi.

Per fare questo, spiega Noreena Hertz nel suo libro, sarebbe necessario:

Quindi abbiamo un problema di carattere antropologico e psicoanalitico, perché nell’epoca del capitalismo finanziario il sé biologico, che è il fondo della personalità umana, fonte delle sue pulsioni e desideri, appare avere ormai subito pesanti pressioni modellatrici dalla cultura dominante.

Il capitalismo finanziario pianifica i desideri, le aspettative, i consumi. Si adopera affinché le età dell’uomo si riducano, favorendo una “artificiale protrazione dell’infanzia”, a prescindere dalla durata effettiva della vita biologica. Le cronache dei nostri gironi sono piene di storie di “immaturità”, “edonismo”, violenza gratuita … incapacità di ascolto e di confronto … incapacità di costruire relazioni positive.

Da tale circolo vizioso non è facile uscirne poiché se questi rapporti diventano in vario modo l’ordito e la trama del suo tessuto umano, cessa la speranza che l’uomo economico possa trovare in sé la forza e i mezzi per trasformare la realtà di cui è parte.

L’estrazione di valore dal lavoro
Vediamo meglio come il sistema condizioni radicalmente la vita dei lavoratori dentro e fuori dall’azienda.

Il capitalismo finanziario ha sviluppato un processo di estrazione del lavoro umano complesso quanto efficiente: allo scopo di massimizzare la quantità di valore estratto è necessario che un’impresa punti a realizzare numerose condizioni, come pagare meno possibile il tempo di lavoro effettivo, aumentare la produttività del lavoratore, riducendo le pause e gli sprechi di tempo, far sì che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire, e minimizzare qualunque onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro.

Accanto allo sfruttamento del lavoro nei Paesi emergenti e alla compressione dei diritti dei lavoratori e all’erosione dei sistemi di protezione sociale in quelli sviluppati, altre due forme di massimizzazione della estrazione di valore dal lavoro meritano una maggiore attenzione, perché operano in maniera meno visibile e subdola.

Una è l’occupazione flessibile. Grazie alle riforme del mercato del lavoro introdotte dai governi, il capitalismo finanziario ha potuto trarre profitto dalla moltiplicazione di tali forme di occupazione, imperniate sui contratti di breve durata.

Il sistema economico stesso, a causa della sua intrinseca fragilità, disincentiva le imprese ad assumere stabilmente, oppure, se inevitabile, ad assumere con contratti di breve durata o con contratti che prevedono il licenziamento senza dover sopportare particolari oneri a carico dell’impresa.

Un secondo modo per estrarre valore dal lavoro umano consiste nell’intensificazione dei ritmi di questo e nella riduzione delle pause durante l’orario: un esempio emblematico, tra i tanti che potrebbero essere menzionati anche all’interno di aziende pubbliche, è quello dei moderni call center: i contatti con i clienti attuali e potenziali sono misurati in secondi, e gli operatori sono retribuiti in base alla durata dei contatti stessi.

Connessi, sempre connessi, troppo connessi
Un’ulteriore riflessione merita, a tal proposito, il fondamentale apporto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione al capitalismo finanziario: gli strumenti mediatici hanno diffuso nell’immaginario collettivo di massa l’idea che il massimo dell’efficienza lavorativa e produttiva consista nell’essere sempre connessi, sempre disponibili, sempre rintracciabili in qualunque momento della giornata, senza alcun buco vuoto nello spazio e nel tempo, a scapito della qualità generale della vita.

L’operazione diretta a far introiettare questa mentalità comincia da subito, fin dai primi anni di scuola. L’essere perennemente interconnesso, dovunque ci si trovi, per parlare al telefono, chattare, scambiare sms, twittare, bloccare, gestire mail inbox e outbox, significa in realtà lavorare senza sosta per qualcun altro.

L’interconnessione ubiquitaria viene presentata di solito come una scelta felicemente innovativa, un modo reso finalmente possibile dalle nuove tecnologie delle telecomunicazioni e dell’informatica di mixare, per così dire, lavoro, tempo libero, ufficio e famiglia. Ma si tratta di una immagine fittizia abilmente costruita dai media e dalle direzioni di marketing della società delle telecomunicazioni.

In realtà, siamo dinnanzi a un prolungamento a oltranza nel tempo e nello spazio dell’estrazione di valore dagli esseri umani. Aver diffuso la finzione in luogo della realtà è un successo della macchina della comunicazione del capitalismo finanziario, senza che nulla cambi nella realtà delle condizioni di vita reale.

Si vantava lo sviluppo della società della conoscenza e delle professioni, oggi invece si constata la richiesta di lavoratori e operai generici da parte delle imprese; l’occupazione flessibile doveva contribuire a elevare la produttività del lavoro, ma le imprese l’hanno utilizzata soprattutto per ritrattare i diritti dei lavoratori e per compiere lavorazioni a basso lavoro aggiunto.

Considerazioni conclusive
L’uomo ha una sua interezza e una sua esigenza di relazionarsi. Se questa sua naturale propensione viene “deviata” verso rapporti virtuali e non reali perde egli stesso il senso della realtà.

Non si può non tener conto dell’ultima Enciclica di Papa Francesco per un mondo che sembra aver perso il cuore. È la quarta enciclica del pontificato di Jorge Mario Bergoglio e il Papa la pubblica in uno dei momenti più drammatici per il genere umano. Guerre corrosive, squilibri sociali ed economici, consumismo sfrenato, nuove tecnologie che rischiano di snaturare l’essenza stessa dell’uomo, segnano l’epoca moderna e il Pontefice chiede allora, attraverso il documento dal titolo “Dilexit nos” (Ci ha amati) [3], di cambiare sguardo, prospettiva, obiettivi e afferma l’urgenza della fraternità e dall’amicizia sociale in un mondo frammentato.

Viviamo un momento molto difficile come Paese in un ambito di crisi internazionale diffusa. Abbiamo due guerre alle porte di casa, una crisi di interi settori economico produttivi una volta fondamentali per l’asset industriale del nostro Paese, vedi la scomparsa della FIAT e le scelte di Stellantis. Stiamo vivendo un ridisegno globale del profilo economico produttivo del Paese, senza vedere una “visione” adeguata del suo possibile sviluppo … siamo ancora molto inadeguati nelle proposte che circolano.

Eppure da queste scelte, ancorché subite, dipenderà il nostro futuro.

Abbiamo una popolazione che invecchia progressivamente, spesso anziani soli in città e nei paesi delle aree interne, i primi più soli dei secondi per assurdo, dobbiamo ripensare i servizi sanitari, sociosanitari e sociali e tener conto dell’evoluzione delle pratiche cliniche e assistenziali.

Abbiamo un PNRR da implementare, definiamo “Case”, “Ospedali” e “Infermieri” di “Comunità”, ma le comunità spesso sono disperse …

Eppure dall’esperienza inglese c’è molto da imparare … gli operatori per la inclusione sociale che si occupano di prevenzione e socializzazione delle persone stanno vivendo una gigantesca esperienza di recupero di appropriatezza, di inclusione sociale, di empatia, di generazione di “comunità” proattiva …

E si risparmiano tanti soldi in riduzione di farmaci, di ricoveri impropri, in termini di mantenimento dei pazienti a livelli medio bassi di ingravescenza di patologie croniche, di riduzione di suicidi e tanti altri indicatori utili …

Ne vogliamo parlare? In fondo, da laici, non possiamo non convenire ancora con Papa Francesco [3] … “ha spostato l’intero discorso sociale dal piano della morale al piano della fede. Non ha cambiato tanto la dottrina sociale, ma ora è posta come questione di fede: dunque interpella la mia fede, mi obbliga a prendere posizione, mi impegna di persona concretamente”.


Silvia Scelsi,
Pass President ASIQUAS e Presidente ANIARTI
Antonio Giulio De Belvis, Presidente ASIQUAS, Docente Univ. “Gemelli”, Roma
Giorgio Banchieri. Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente DiSSE, Università “Sapienza”, Roma;
Andrea Vannucci, Membro CTS ASIQUAS, Docente DISM, Università Siena.



[1] Noreena Hertz, “Il secolo della solitudine” (2021)., Il Saggiatore;

[2] Zygmunt Bauman “Modernità liquida” (2011), Laterza Editore, e “Il disagio della post modernità” (2018), Feltrinelli;

[3] Papa Francesco, Enciclica “Dilexit nos” (2024)



08 novembre 2024
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