Mi trovo a scrivere su due temi che sono stati e sono da sempre due mie grandi passioni. La disciplina giuridico-economica delle farmacie, dalle quali mi occupo da 50 anni circa, e l’etica propria del fare giornalismo di Milena Gabanelli.
Questa volta in antitesi, ovverosia con la seconda che scrive sul ruolo esercitato e, pesantemente, su quello in evoluzione delle prime. Lo fa con riferimento all’iter legislativo che ne ha disciplinato l’esercizio, ricorrendo addirittura al RD 27 luglio 1934, n. 1265, il cosiddetto Testo Unico delle Leggi sanitarie, che ancora non prevedeva la farmacia come esercitata in regime di concessione (così introdotta nel 1968), solo per dire che medici e farmacisti non possono fare affari insieme. Una regola, giuridicamente inquadrata nel reato di comparaggio molto praticato negli anni di vigenza delle casse mutue, che tuttavia non ha nulla a che fare con le modifiche in atto sul funzionamento dell’assistenza sociosanitaria di prossimità. Infatti, la mini riforma fa tutt’altro: regola, impedendo ogni genere di “commistione”.
Lo fa in un’aria di abbandono assistenziale, sottratta dalla strage che avrebbe potuto fare il Covid solo grazie alla esistenza e al costante e duro impegno delle farmacie, a mantenere i loro battenti aperti anche quando le ricette venivano consegnate agli utenti, potenzialmente infetti dal virus, mediante il panierino.
Ebbene, in un sistema che sta cambiando e, dunque, male, con accreditamenti che sono diventati strumenti di “piacere” e di “comparaggio” tra decisori pubblici e aspiranti, che con l’ADI faranno quattrini a palate, si fanno i conti al margine di utile (LORDO) dei farmacisti. Un valore questo che - tenuto conto degli investimenti fissi, del magazzino necessario a soddisfare la domanda, della tecnologia impegnata e del personale professionista impegnato – si restringe nell’ordine dell’8/8,5 netto, un po’ meno di quello dei comuni tabaccai.
Ma il punto più preoccupante della contesa è quello della mission che si vuole attribuire alla farmacia nell’ambito dell’assistenza territoriale, quasi come se si volessero difendere rendite di posizioni acquisite nel segmento della diagnosi chimico-clinica e di quella refertabile attraverso il ricorso alla telemedicina (non affatto perfezionato dal farmacista bensì da un eccellente professionista di solito operante in siti altamente qualificati). Con questo si tifa per l’esistente e si evita che l’assistenza alla persona venga facilitata come la stessa merita, senza imporle gli attuali disagi dovuti alle liste di attesa e alla ubicazione tanto periferica che rende quasi impossibile il ricorso a strutture alternative alla farmacia, nella quale il cittadino trova una ospitalità agiata ed efficiente.
Ovviamente, il progetto dovrà trovare il suo completamento nella messa a terra delle Case di comunità e negli Ospedali di comunità, ancora nel più tardo ed errato concepimento, come comodità distributiva. E questo è il tema che dovrebbe suggerire alla Gabanelli, cui sono tanto cari il benessere della persona e la salvaguardia dalle malefatte.
Ettore Jorio