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Privatizzazione del Servizio sanitario nazionale: di cosa stiamo parlando?

di Isabella Mastrobuono

La spesa privata non è il male assoluto ed il suo aumento non è solo specchio di un Servizio sanitario nazionale  che non funziona ma di una Società che è molto cambiata, che vuole risposte rapide, che vuole scegliere il medico al quale affidarsi (basta dare uno sguardo ai siti che elencano i migliori medici per disciplina), che cerca strutture per lui adeguate ed efficienti. Lo fa con risorse proprie, libere, non contingentabili né indirizzabili

14 GIU -

Recentemente sono comparsi diversi articoli qui su QS riferiti allo stato di salute del servizio sanitario nazionale che hanno descritto i problemi che lo caratterizzano, a dire il vero da anni, e che si sono acuiti dopo la pandemia da Sars >Cov 2 iniziata nel 2020.

Come era prevedibile ci si è trovati dinanzi ad un evento che ha stressato il sistema sanitario nel suo complesso, come peraltro è avvenuto in tutti i Paesi in Europa e nel mondo.

Sono aumentate le prestazioni non rese a livello ospedaliero e nelle strutture territoriali; il personale, già insufficiente, è stato sottoposto a super lavoro, soprattutto nei pronto soccorso, nelle medicine, comprese le unità operative di malattie infettive. La produzione delle aziende sanitarie è diminuita con ripercussioni sui bilanci, che hanno risentito anche del parziale rimborso governativo per le spese per COVID e dell’aumento dei costi per l’energia legati alla guerra in Ucraina.

Da questo le riflessioni di molti Autori su temi noti che desidererei trattare in successivi contributi cominciando dal finanziamento del sistema salute nella sua globalità (spesa pubblica e privata) e dai rapporti con le strutture private.


La percentuale di spesa pubblica per il SSN sul PIL pari al 6,4% nel 2019 (114 miliardi) è salita al 7,3% (120 miliardi ) nel 2020 ma è destinata ad assestarsi sul 6,2 prossimamente. In termini assoluti, nel documento di economia e finanza varato dall’attuale Governo, la previsione di spesa sanitaria è di 136.043 milioni, ovvero 4.319 milioni in più rispetto al 2022 (+3,8%), anche se vanno considerati lo spostamento al 2023 della spesa sanitaria prevista nel 2022 per il rinnovo contrattuale del personale dirigente e l'inflazione per il 2023 che si attesta a +5%. Dal 2013 la spesa pubblica è cresciuta di circa 20 miliardi!

In modo sviante ed acritico tali percentuali vengono comparate con altri Paesi europei come la Francia e la Germania che non sono caratterizzati da un servizio sanitario nazionale ed hanno un PIL di gran lunga superiore a quello italiano in costanza di un inferiore debito.

Il paragone si estende al Regno Unito il cui servizio sanitario nazionale (NHS), rispetto alla stessa percentuale di popolazione, ha un finanziamento superiore al nostro di circa 20 miliardi, ma che non gode certo di buona salute. Sono in atto da mesi scioperi ad oltranza e proteste su tutto il territorio per le lunghe liste di attesa e l’accesso incontrollato ai pronto soccorso ospedalieri. L’insoddisfazione degli operatori è a livelli mai prima immaginati!

Problemi stanno sorgendo poi in Germania dove l’eccesso di spesa delle Casse malattia è tale da avere avviato una profonda riflessione sul mantenimento dei piccoli ospedali dove peraltro non viene garantita la sicurezza delle cure, come pubblicamente affermato dal Ministro della salute.

E’ evidente che non basta aumentare il finanziamento di un sistema sanitario, sia esso basato sulla fiscalità generale che assicurativo, per garantire efficacia ed efficienza delle cure. E’ pur vero che il PNRR prevede per l’Italia finanziamenti dedicati al mondo sanitario (circa 15 miliardi) ma se si fa eccezione per l’Assistenza domiciliare integrata (ADI) le risorse sono quasi tutte destinate agli investimenti.

E’ vero che il finanziamento pubblico del SSN in Italia è basso (lo è da sempre) ma la sostenibilità del debito italiano, che salirebbe ad oltre 3000 miliardi nel 2025, potrebbe non essere garantita dall’aumento incontrollato degli interessi a meno che non cresca l’economia e quindi il PIL nazionale.

In questo particolare momento storico appare complesso e difficile intervenire con aumenti che Alcuni indicano in almeno 20 miliardi di euro, valori anche ben più alti in alcuni studi previsionali proiettati al 2050 (meridiano sanità –Ambrosetti), per i ben noti problemi legati all’invecchiamento e alle conseguenti patologie croniche che lo accompagnano.

I livelli essenziali di assistenza (anche se dovrebbe essere più corretto parlare di tipologie di assistenza) sono individuati contestualmente alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica.

In altri termini se il finanziamento è insufficiente la fruibilità dei servizi, delle attività e delle prestazioni può essere integrata da alcune condizioni applicative:

1) la riduzione dell’offerta nell’ambito delle specifiche funzioni nelle quali si articolano le tipologie essenziali di assistenza e/o la loro conversione in altre funzioni;

2) la partecipazione alle spese da parte degli assistiti;

3) la inclusione (liste positive) e la esclusione (liste negative) della fruizione di determinate prestazioni da parte di talune categorie di assistiti;

4) la limitazione temporale della fruizione di talune prestazioni nel corso dell’anno;

5) la erogazione in forma indiretta di talune prestazioni ed il relativo regime di rimborso.

Immagino le reazioni a queste proposte che scrivemmo oltre 20 anni fa (Guzzanti E, Mastrobuono I. I livelli essenziali di assistenza: L’evoluzione e l’interpretazione della normativa, i problemi e le proposte. Mondo Sanitario. 2001;VIII -7-8:17-36).

Mentre il finanziamento pubblico è condizionato dal pesante debito pubblico (e lo sarà ancora per molto tempo), la spesa privata sfiora i 40 miliardi, fenomeno che peraltro avviene in tutti Paesi europei e non solo. La spesa privata, soprattutto “out of pocket” (di tasca propria e quindi libera!) è spesso messa in relazione all’impossibilità di ricorrere al SSN ma non sempre ciò è vero come ha dimostrato in più studi e ricerche il Censis.

Il cittadino, non solo appartenente alle fasce di reddito più alte o medio-alte, sceglie la struttura, il medico e il team di riferimento (che rimangono gli stessi negli incontri successivi), in molti casi la prestazione è più “conveniente” rispetto ai ticket per l’accesso al SSN, e il cittadino ottiene le prestazioni in tempi brevi. Molte strutture private autorizzate ed accreditate garantiscono centinaia di prestazioni diagnostiche a prezzi appena superiori a quelli dei ticket in tempi rapidissimi.

Complessivamente, nel 2021 la spesa sanitaria pubblica e privata italiana ammontava a 168 miliardi di euro, pari al 9,5% del PIL, in linea con l’Europa. Il settore privato genera salute e PIL, anche se in un Paese caratterizzato da una certa dose di “infedeltà fiscale” una quota certamente “sfugge” alla tassazione, cosa che non succede (obbligo di fattura per i rimborsi) per i circa 5 miliardi (dei 40 totali) gestiti dai 318 fondi/società di mutuo esistenti con oltre 15 milioni di iscritti (dati Anagrafe dei fondi 2020).

Dalla prima indagine condotta (Mastrobuono 1996) risultarono poco più di 1 milione di iscritti ad alcuni fondi storici. Oggi questo mondo è cresciuto straordinariamente, entrando a fare parte del cosiddetto “welfare aziendale” inserito nel “Jobs Act” con la defiscalizzazione fino a 3.200 euro pro-capite per la salute.

Le SMS e i fondi integrativi sono sempre esistiti prima e dopo la 833/78 e fanno parte del grande mondo della mutualità che è un valore nazionale, tutelato dalla Costituzione ed inserito nella legge 833 con la citazione “la mutualità volontaria è libera”. Sono stati preziosi durante la pandemia continuando a garantire prestazioni nelle strutture con loro convenzionate.

I cosiddetti vantaggi fiscali di cui godono i fondi e le SMS (vedi Bocconi e Agenzia delle entrate 2019) ammontano a circa 6/700 milioni, che, qualora aboliti, non si può garantire vadano al SSN, senza escludere la possibilità che i fondi stessi si trasformino in società di mutuo soccorso alle quali sono costituzionalmente garantite agevolazioni fiscali.

Recentemente (settembre 2022) è stato istituito l’Osservatorio nazionale permanente dei fondi sanitari integrativi (OFSI), di cui mi onoro di fare parte con compiti di studio e ricerca per implementare una governance istituzionale dei fondi, nonché aggiornare la normativa “nel rispetto dei principi di universalità, uguaglianza, equità nell’accesso alle prestazioni e ai servizi sanitari, nonché della centralità della persona e della globalità della copertura assistenziale”.

Ma il tema sul quale sembra esserci un certo accanimento quando si parla di “privatizzazione” della sanità è rappresentato dalle strutture private accreditate, in particolare ospedaliere. La macchina ospedaliera italiana mette a disposizione 185.000 posti letto (valore tra i più bassi d’Europa, anche per i p.l post-acuzie) di cui 129.000 sono in ospedali pubblici e 56.000 nei privati accreditati (soprattutto riabilitazione che il pubblico eroga con difficoltà). Si sono registarti durante la pandemia circa 6,4 milioni di ricoveri (rispetto agli 8 pre-pandemia) con 48 milioni di giornate di degenza di cui il 71,7% negli ospedali pubblici ed il 28,3% nel privato accreditato.

Se si sfoglia il rapporto sulla qualità degli outcome clinici negli ospedali italiani (Agenas 2021 su dati PNE) spiccano le strutture private accreditate in alcuni settori strategici come il sistema nervoso, il respiratorio, la chirurgia oncologica e l’osteo-muscolare. Il SSN si avvale delle strutture private ad integrazione di quelle pubbliche sulla base del fabbisogno e con un budget globale che è rimasto quello del 2011 (DL n.95 del governo Monti!).

Di seguito le riflessioni (personali ovviamente) che nascono dalla rappresentazione di questo scenario:

1. il Servizio sanitario nazionale abbisogna di maggiori risorse (non solo negli investimenti ma soprattutto per parte corrente) ma è molto difficile che si possano raggiungere cifre importanti del fondo sanitario nazionale in costanza di un debito pubblico in crescita;

2. le tipologie di assistenza (LEA) sono erogate in base ai finanziamenti e se questi non sono sufficienti (e difficilmente lo saranno) bisognerà onestamente ammetterlo. Per quanto sia possibile riorganizzare, re-ingegnerizzare attività e prestazioni (professionisti permettendo) non si riuscirà a garantire tutto (ammesso che i LEA individuino questo tutto) a tutti;

3. la spesa privata non è il male assoluto ed il suo aumento non è solo specchio di un Servizio sanitario nazionale che non funziona ma di una Società che è molto cambiata, che vuole risposte rapide, che vuole scegliere il medico al quale affidarsi (basta dare uno sguardo ai siti che elencano i migliori medici per disciplina), che cerca strutture per lui adeguate ed efficienti. Lo fa con risorse proprie, libere, non contingentabili né indirizzabili;

4. la spesa intermediata da fondi, società di mutuo soccorso, casse, è una parte (piccola) di quella privata, è inserita nel welfare aziendale che dà risposte concrete ai lavoratori (più giovani). I fondi investono spesso in prevenzione con dati che potrebbero essere di grande utilità per un sinergico scambio di informazioni con il SSN in un’ottica di collaborazione e non di antitesi;

5. Il ruolo dei privati con il SSN, soprattutto dei privati ospedalieri accreditati, è fondamentale in un Paese che ha il più basso indice di posti letto per acuti e post-acuti d’Europa, soprattutto nel campo della riabilitazione destinata ad aumentare nei prossimi anni: non ha senso invocarne il contingentamento! Ma è tutto il mondo del privato autorizzato ed accreditato, ospedaliero e non, che meriterebbe di essere valorizzato approdando finalmente ad un concetto più moderno di accreditamento, superando le barriere dei budget vincolanti (spesso superati) e dell’impossibilità dello scambio di personale, per giungere ad una integrazione moderna al passo con i tempi.

Isabella Mastrobuono



14 giugno 2023
© Riproduzione riservata


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