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Gestazione per altri. La “violenza” dietro al paravento della presunzione di un “diritto”

di Adriano Pessina 

Avere, oggi, il coraggio di contestare e vietare la maternità surrogata significa garantire e tutelare, a livello sociale, culturale e giuridico, un diritto universale che finora non sembrava necessario porre: quello di poter nascere dal grembo della propria madre e di non essere “privato”, “grazie” alla tecnica,  di quel legame che non è solo biologico, fisiologico, funzionale, ma “umano”. Nell’epoca dei diritti, abbiamo tutti la responsabilità di garantire questo diritto “umano e civile”

13 GIU - Nella storia ci sono state tante forme di violenze -purtroppo ancora presenti - perpetrate, anzitutto nei confronti delle donne, in nome di un preteso diritto alla genitorialità e del desiderio di avere figli.

Tuttavia, nessun desiderio può trasformare un essere umano, un figlio, in un “oggetto”; la violenza, del resto, proprio dietro al paravento della presunzione di un “diritto”, si può esercitare in molti modi: economici, psicologici, emotivi.

Siamo, del resto, in un’epoca storica in cui si moltiplica l’appello ai “diritti”, senza che sia chiaro quale sia il loro fondamento, in che cosa si distinguano dai semplici desideri e che tipo di “doveri” implichi il loro riconoscimento. E anche nel caso della cosiddetta maternità surrogata o “per altri” – tema non nuovo, ricordiamolo - entra in gioco proprio questa strategia comunicativa. Si parla, infatti, di un “diritto” alla genitorialità che questa pratica sarebbe in grado di garantire; cosicché, per rendere più efficace l’artificio retorico, la si collega ai diritti delle persone LGBTQ, ignorando che la maternità surrogata è anche utilizzata da coppie eterosessuali.

Ora, però, se si vuole ragionare al di là degli schemi, delle solite contrapposizioni progressisti versus conservatori ( o reazionari) cattolici versus laici, liberali versus conservatori, sinistra versus destra, e si entra, finalmente, nel merito della questione, occorre, chiarire i termini del problema.

A differenza di quanto alcuni affermano, una possibilità “tecnica” non istituisce alcun diritto in sé, né può essere interpretata semplicemente come un’ “opportunità”, se finisce con il calpestare i diritti dei soggetti meno tutelati persino dalla narrazione pubblica: appunto la donna e il bambino.

In questo senso nessuna società democratica dovrebbe tollerare qualsiasi forma di “schiavitù”, fosse pure volontaria o contrattualizzata: ogni strumentalizzazione del materno e del corpo femminile, ridotti a pura funzione, è di fatto una forma di schiavitù e una aperta violazione dei diritti umani.

Se davvero vogliamo pensare alla nostra responsabilità verso le generazioni future, allora dobbiamo chiederci se si possa pensare a un diritto alla genitorialità che non tenga in nessuna considerazione il diritto del generato, cioè di quel “figlio” che non è “soltanto” un neonato, ma un essere umano, dunque un cittadino che dovrebbe godere del diritto costitutivo di non diventare mai, a nessuno stadio della sua esistenza, “oggetto” di scambio e, diciamolo, nemmeno “oggetto” di desiderio, perché costitutivamente “soggetto”. Il che non è una cosa da poco.

Garantire, a livello etico e giuridico, i diritti dei “figli” significa garantire i diritti di tutti. Non tutti gli esseri umani sono padri o madri, ma tutti, per tutta la loro esistenza, sono “figli” di qualcuno. Parlare di figli significa riflettere su due aspetti: la dimensione relazionale della nostra origine e il fatto che i diritti dei “bambini” sono un aspetto decisivo dei diritti dei figli, perché quella fase, transitoria, ma rilevante, richiede una garanzia anche sociale. Eppure, va notato che, oggi, si invocano i diritti dei bambini per legalizzare, a-posteriori, varie tecniche riproduttive eterologhe, compresa la maternità surrogata, pratiche che di fatto funzionano proprio perché dei futuri bambini, del loro benessere e dei loro diritti non si tiene sufficiente conto.

Nella maternità surrogata, o per altri, si chiede, di fatto, a una donna di svolgere, per nove mesi, la funzione materna per poi prelevare il neonato ed affidarlo ad una coppia sociale. Certo, alcuni genitori sociali possono anche essere migliori dei genitori biologici, ma questo non legittima la trasformazione della maternità biologica e fisiologica in un puro mezzo riproduttivo. Proprio questa falsificazione etica e antropologica della maternità dovrebbe indurre al divieto.

Le tecniche procreatiche possono facilmente frantumare le figure genitoriali, facendo prevalere quella sociale, ma non si può ignorare che la prassi della maternità surrogata introduce un ulteriore vulnus, che investe la stessa figura del materno e della donna.

La maternità è una nozione astratta, che nell’immaginario collettivo fa sparire la concreta esistenza di una donna, della sua storia personale e della sua relazione, che dura i nove mesi della gestazione, con il figlio che porta in grembo e che è già pensato come un “estraneo” da consegnare ad altri. La donna diventa una funzione fisiologica, interscambiabile, alla stregua di qualsiasi gamete maschile e femminile. Nove mesi di “lavoro riproduttivo”, dalla generazione al parto, per finire con la consegna ai committenti del neonato. Basta andare in rete e leggere i contratti e le proposte del nuovo “mercato liberale” per comprendere come “funziona” questa prassi, uscire dalla narrazione oblativa e solidale e rimettere i piedi per terra. Quello che viene sbandierato come diritto alla genitorialità, in questa prassi, è solo la risposta tecnico-economica a un’atavica volontà riproduttiva e proprietaria, che nei fatti risulta impermeabile a qualsiasi critica: il “figlio” è “mio” e lo genero come voglio io. Da qui lo stravolgimento del significato originario della nostra comune umanità in una “mera” proprietà “privata”.

Avere, oggi, il coraggio di contestare e vietare la maternità surrogata significa garantire e tutelare, a livello sociale, culturale e giuridico, un diritto universale che finora non sembrava necessario porre: quello di poter nascere dal grembo della propria madre e di non essere “privato”, “grazie” alla tecnica, di quel legame che non è solo biologico, fisiologico, funzionale, ma “umano”. Nel momento in cui le tecniche rendono possibili molti scenari relazionali, bisogna avere, dunque, il coraggio etico e giuridico di ribadire che ogni essere umano, ogni figlio, ha il diritto, proprio come essere umano, di nascere nel e dal grembo della propria madre e di non essere oggetto di un preventivo scambio di interessi tra i committenti e le “esecutrici” della gestazione e del parto.

Nell’epoca dei diritti, abbiamo tutti la responsabilità di garantire questo diritto “umano e civile”, per tutelare insieme il generato e il materno, impedendo una nuova e sottile forma di sfruttamento delle donne. Ne viene la necessità di condurre una battaglia contro le diseguaglianze che si istituiscono, in nome della tecnica e dell’economia, tra i genitori sociali, qualunque sia il loro orientamento sessuale, e le donne usate per un compito a termine.

Il diritto alla genitorialità ha dei limiti “costitutivi” legati ai diritti dei generati e ai diritti delle donne; diritti che fondano i nostri “doveri” nei confronti degli uni e delle altre.

Adriano Pessina
Professore Ordinario di Filosofia Morale
Docente di Bioetica
Università Cattolica, campus di Milano

13 giugno 2023
© Riproduzione riservata


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