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La sanità pubblica ha un futuro se cambierà i suoi modelli operativi

di M.Dal Maso, A.G.De Belvis, E.Di Simone, S.Scelsi, A.Vannucci

Come? Partiamo dal Pnrr, che va usato come effettivo strumento del cambiamento. Poi dare luogo a una effettiva integrazione ospedale-territorio attorno al paziente. Terzo, un approccio di multi professionalità e interdisciplinarietà e di lavoro di gruppo in equipe e team “integrati”. Quarto, un nuovo paradigma assistenziale: un nuovo sistema di valorizzazione delle prestazioni

28 APR -

Pensare al futuro del SSN/SSR significa rivedere cosa ha davvero funzionato, e cosa meno, nei primi 45 anni della sua esistenza. Ovviamente significa decidere verso quali nuovi confini spingerne una sua necessaria ed inevitabile riorganizzazione, formale e sostanziale, partendo da alcuni principi:

Nel PNRR si interviene con importanti risorse e proposte programmatiche nella riorganizzazione degli ospedali italiani sia dal punto di vista delle dotazioni tecnologiche per diagnosi e terapie, che dal punto di vista dei processi di “condivisione informativa” in una logica di approccio 4.0, ovvero di integrazione delle basi dati esistenti nelle aziende sanitarie e di “data analytics”.

Ma l’ospedale deve anche innovare verso modelli organizzativi che lo portino a connettersi e integrarsi con strutture e reti territoriali e a lavorare per “reti cliniche”, per PDTA “integrati” ospedale-territorio, acquisendo agilità e flessibilità operative.

Fasi di transizione dal modello organizzativo per strutture verticali a quello matriciale per discipline e processi

Ospedali e territorio debbono evolvere nei loro modelli organizzativi e gestionali “insieme” e in un approccio “integrato”. Solo intervenendo su entrambe le “dimensioni” operative dei SSR sarà possibile implementare approcci di ottimizzazione, “lean management”, “project management” ed elevare i livelli di sicurezza e di qualità delle attività assistenziali erogabili.

Abbiamo bisogno di ospedali a “intensità di cura” diffusi, “aperti” verso il territorio e “integrati” con esso, che evolvano verso modelli di ospedali “senza letti”.

Il Punto di Cura (POC) è definito in letteratura come "il luogo in cui vengono ricevute/erogate cure sanitarie". Nei secoli il POC si è spostato in modo significativo dal capezzale dei malati agli ambulatori dei medici e agli ospedali. Negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni grazie ai servizi di telemedicina, è in atto il percorso inverso.

Il POC si è esteso al di fuori degli spazi fisici delle strutture sanitarie e ora include i pazienti, ovunque si trovino. Uno dei punti chiave delle tecnologie sanitarie digitali è che possono democratizzare l'accesso alle cure perché sono in grado di operare una revisione del concetto tradizionale di POC che consente ai pazienti di diventare più proattivi nella gestione della loro salute.

La nuova realtà dei POC nell'era della salute digitale consisterà in due componenti, entrambe partecipate dai professionisti dell’ospedale, una si svilupperà fuori dalle mura degli ospedali e l’altra al loro interno: l'assistenza acuta e le esigenze chirurgiche.

Tutti questi modelli sono stati già realizzati e sperimentati in altri Paesi.

Anche per gli ospedali vale la considerazione che “pubblico” è diverso da “privato” – ovvero – essere “universalisti” ed “equi” è diverso da essere “profit”. L’esempio della medicina “a gettone” è assolutamente chiarificatore circa le conseguenze di queste forme di privatizzazione “a cottimo” forme più o meno improvvisate di organizzazioni di lavoro professionale che nascono in risposta a variazioni improvvise e critiche della domanda di forza lavoro …Alla fine siamo sicuri che ci costi di meno che assumere nuovi operatori?

In Italia su 100 medici, 18 sono medici generici e 79 gli specialisti (ci sono poi 4 medici di altre categorie).

DM 70 e DM 77: definire il percorso del paziente nel processo di cura
Il Decreto 70 va rivisto e va integrato con il Decreto 77 della Medicina Territoriale (che va modificato) al fine di stabilire una volta per tutte qual è il “flusso del paziente” e permettere ai DEA di primo e secondo livello di poter gestire non solo l’entrata dei pazienti, ma soprattutto la loro dimissione a domicilio o nel territorio.

Questo potrà avvenire solo e soltanto se si arriverà ad una direzione del processo di cura unica e non frammentata tra diversi decisori politico amministrativi.

È proponibile uno schema di “flusso” del Paziente dal proprio domicilio al più idoneo luogo di cura, fino al suo rientro al domicilio o in strutture dedicate una volta risolto il problema di salute.

Uno schema che veda finalmente interagire le varie figure professionali (medici dipendenti, medici convenzionati, infermieri) per la migliore cura del paziente. Sono proponibili nuove figure professionali che aiutino i vari professionisti in questo percorso, anche alla luce delle innovazioni previste dal PNRR.

Gli americani lo chiamano “door to door” e lo hanno studiato bene. Esistono evidenze che la possibilità per un paziente di utilizzare “setting” a diversa intensità di assistenza in funzione dell’evolvere della sua malattia non generi risparmi finanziari, ma ottenga migliori risultati clinici. Quindi in termini di valore sia conveniente.

Il passaggio fondamentale dovrebbe essere la “presa in carico dei pazienti” da parte di nuove figure professionali, con competenze in diversi nuovi campi della medicina (soprattutto quella territoriale), anche se non necessariamente ultra specialistiche, possedendo capacità di leadership e di coordinamento degli interventi multidisciplinari e multi professionali, in stretto collegamento con il medico di medicina generale all’inizio e alla fine della degenza; di fatto un professionista clinico con competenze manageriali del percorso del paziente.

In USA, da oltre 40 anni, è presente il medico “hospitalist”, che ha come focus primario professionale la “care” complessiva del paziente ospedalizzato, che prende direttamente in carico il paziente. Questa figura programma il piano di cura, attiva le consulenze dei “consultant” ritenute necessarie, ed è il responsabile della terapia, del percorso di degenza e della dimissione, diventando il trait d’union con il MMG. Ruoli simili svolgono gli infermieri manager. Forse si dovrebbe fare una riflessione anche da noi su tali figure…

Progettare ospedali flessibili ed agili, sostenibili e centrati su pazienti e operatori
I principali obiettivi possibili e necessari sono:

La matrice del cambiamento: le opzioni possibili

L’ospedale e il territorio: come integrare
L’approccio all’integrazione tra ospedale e territorio si basa necessariamente su metodi e modelli finalizzati ad aumentare la personalizzazione delle cure, la facilità di accedervi con tempestività, l’esperienza che pazienti e familiari ne traggono e l’efficienza di sistema per pazienti con problemi complessi e di lunga durata che coinvolgono diversi servizi, erogatori e modalità assistenziali.

L'integrazione sociosanitaria per essere tale va attuata e verificata a tre livelli: istituzionale, gestionale e professionale. Quindi, mettere in pratica modelli di assistenza integrata pone sfide importanti a livello politico, organizzativo e di erogazione dei servizi. L’esperienza di cure integrate finora è limitata, ma promettente. Ulteriori ricerche sono necessarie per garantire che l'applicazione dei modelli proposti sia fattibile, sostenibile e si traduca in migliori condizioni di salute. Le politiche devono essere adattate alle realtà locali.

La traduzione istituzionale e operativa delle logiche di integrazione dell’assistenza è nella progettazione e implementazione delle reti cliniche (ospedali-territori) e dei processi assistenziali (PDTA), strumenti necessari per perseguire gli obiettivi fondamentali del nostro SSN (Equità, Efficacia, Efficienza) attraverso:

Tra le interdipendenze, quella tra ospedale e territorio è storicamente una delle più drammatiche da gestire e di grande sensibilità per i pazienti. I cittadini non accettano più servizi frammentati, disaggregati in cui spetta al fruitore ricercare unitarietà e continuità. L’assistito si aspetta che ci sia un unico punto di riferimento che esprima una diagnosi unitaria che lo indirizzi lungo un percorso delineato e coerente. L’assistenza integrata garantisce la continuità delle cure sanitarie (di servizi sanitari diversi) e dell’assistenza socio-sanitaria (di servizi sanitari e sociali).

Senza integrazione non c’è continuità assistenziale
L’integrazione fra le competenze e gli interventi sanitari e sociali non è più soltanto una auspicabile opzione ma una necessità per la qualità stessa degli interventi.

Uno dei punti critici della continuità assistenziale è costituito proprio dal momento della programmazione della dimissione, dei servizi da attivare in uscita dall’ospedale; infatti la risposta a fabbisogni non solo sanitari ma anche sociosanitari e assistenziali richiedono servizi dedicati e condivisi tra le unità operative, non più gestibili con soluzioni eterogenee e interne a ciascuna di esse.

In questi casi le risposte possono essere molto differenziate e sono spesso riconducibili al filone delle cosiddette “integrated care”: qui il tema dell’integrazione e della continuità assistenziale supera i confini delle aziende sanitarie e appartiene alle reti cliniche.

DM 77 e modelli uniformi in tutto il Paese
In coerenza con quanto sopra, sono inderogabili dei “criteri attuativi nazionali uniformi” sull’organizzazione della “medicina territoriale”, di “prossimità”, di “comunità” e domiciliare, nonché sul ruolo dei MMG, PLS, guardia medica e altre forme di “medicina convenzionata” e loro forme associative interprofessionali e interdisciplinari come:

Questo con grande attenzione ad aperture “necessitate” a gestioni in “outsourcing” dei servizi e/o delle strutture territoriali … Dopo decenni di “outsourcing” di servizi negli ospedali e nel territorio dovremmo avere la consapevolezza di quanto stiamo pagando a scelte politiche interessate.

Inoltre, occorrerebbe approfondire perché, a parità di quota pro-capite “pesata”, abbiamo ancora differenze sostanziali nelle performance dei SSR …

Politica delle professioni
Assistiamo dovunque ad un depauperamento delle risorse professionali della sanità, del sociosanitario e del sociale. L’OMS prevede da qui a 10 anni una carenza di circa 10 milioni di operatori sanitari nel mondo.

È chiaro sia dai rapporti delle Federazioni degli Ordini delle Professioni come medici e infermieri (FNOMCeO, FNOPI), che dalle dichiarazioni delle Società Scientifiche di settore (ANIARTI, SIMEU, etc) che la politica di programmazione della costruzione di professionisti competenti in numero sufficiente ai fabbisogni della popolazione non è stata adeguata e non è stata programmata per garantire come minimo il turnover con il personale che andava in quiescenza.

Sappiamo che cambiando i modelli organizzativi negli ospedali e nel territorio, anche come previsto nel PNRR, ci servirebbero sempre più infermieri con profili e competenze diverse. Se spingiamo di più verso il domiciliare, il sociale e il sociosanitario probabilmente ce ne servirebbero ancora di più …

Nonostante il PNRR abbia messo in cantiere l’aumento delle borse di studio in medicina generale e l’incremento dei contratti di formazione specialistica, l’inadeguatezza si esprime non solo nella insufficienza numerica dei professionisti ma anche nella assoluta inadeguatezza della programmazione rispetto alle competenze specifiche da sviluppare in termini di specialità disciplinari.

Questo provoca un fenomeno pericoloso di fuga dalle strutture sanitarie che non riescono a garantire gli standard di performance compresi nei LEA. Abbiamo formato e perso negli ultimi 10 anni circa 180.000 operatori sanitari a vantaggio di altri Paesi. È un lusso che non potevamo concederci …

Inoltre ci mancano i MMG e i PLS e pensiamo di tamponare l’emergenza con un elevamento del numero di pazienti a loro assegnabili … un aumento del massimalismo …

Dai medici di famiglia agli infermieri, ecco tutte le carenze di personale che rischiano di frenare il PNRR e far franare il SSN. I numeri dell’OCSE


In realtà ciò che occorre è creare condizioni migliori di lavoro, retribuzioni in linea con quelle medie nella UE (siamo molto al di sotto) e disegnare percorsi di carriera significativi e qualificanti. Ridisegnare i modelli e le competenze non serve a nulla se non si modificano le opportunità a disposizione di un professionista per esercitare le proprie competenze.

Quanto detto è fondamentale, altrimenti il gap esistente tra “pubblico” e “privato” va a vantaggio del “privato” e giustifica la fuga di molti operatori dalle condizioni negative di status, lavoro e reddito che il “pubblico” oggi è costretto ad offrire ai suoi operatori. Il rischio è quello di facili semplificazioni che aprono la strada a policy incentrate sulle “professioni libere”, come risposta alle difficoltà dei SSR.

MMG, PLS, Guardie Mediche, Continuità Assistenziale, Specialisti territoriali hanno un loro comun denominatore, sono tutti “convenzionati” con i SSR.

Adesso si propone di sperimentare la libera professione degli infermieri …

Scaricando sulla autonomia dei “libero professionisti” della sanità le difficoltà e le contraddizioni delle policy sanitarie, sociosanitarie e sociali. Anche questa diventa una prospettiva di “privatizzazione” esplicita della sanità. Sembra di essere in una logica di “corporazioni sanitarie”, in cui vinca il migliore … rispetto a cosa?

Proposte “in progress”
In questa situazione sono prioritari quattro temi:

1. PNRR: uno strumento di cambiamento
Il PNRR è un’irrepetibile occasione di rinnovamento e qualificazione della sanità nel nostro Paese a condizione che vi sia una volontà politica di ridare centralità alla sanità pubblica come riferimento per la gestione dei servizi a fronte di una analisi in progress dei bisogni di salute della popolazione.

È necessario affrontare il tema delle risorse umane della sanità e trovare le dotazioni finanziarie adeguate al loro inserimento nei SSR, risolvendo criticità legate al precariato, al lavoro in “outsourcing”, al “conto terzismo”, al “gettonismo” e a tutte le atre forme di contratti “atipici” esistenti in sanità e nel sociosanitario.

Le dotazioni finanziarie per il SSN e i SSR devono essere riportati, dopo anni di tagli e di ridimensionamenti strutturali e di personale, a importi congrui, ovvero, almeno a più del 7% sul PIL, tenendo conto anche dei livelli di spesa di altri Paesi UE con cui ci confrontiamo sui livelli di performance dei rispettivi sistemi sanitari, vedi Germania e Francia, che sono oltre l’8% del loro PIL.

Il PNRR deve essere gestito con trasparenza e con un monitoraggio condiviso tra stakeholder istituzionali e società civile. Bisogna evitare assolutamente che gli investimenti previsti vengano gestiti da soggetti privati “profit” in una logica di accentuazione delle diseguaglianze sociali e di salute nel Paese.

Il tema salute richiede policy integrate su ambiente, lavoro, imprese, servizi, clima, agricoltura e ambiente in una logica di “one-health” ormai imprescindibile.

2. Ospedale e territorio: integrazione attorno al paziente
Centrale è il tema della integrazione trasversale dei servizi ospedalieri, sociosanitari e sociali. La centralità del paziente vuol dire garantire la sua “presa in carico”, la sua “continuità relazionale”, la sua “continuità informativa”. I diversi “setting assistenziali” devono collegarsi e integrarsi tramite PDTA, PAC, PAI, PidS (Percorso Individuale di Salute) e quant’altro utile a garantire la “centralità del paziente”.

Altri approcci a silos o verticali aumentano la separatezza dell’ospedale e dei territori e impediscono processi di ottimizzazione e di “lean management”.

Ospedali a “intensità di cure” possono essere “flessibili e agili” in attività istituzionale e di elezione e ancor di più a fronte di emergenze pandemiche e/o infettive – contagiose e possono dialogare e integrarsi con una sanità territoriale di popolazione, di prossimità e di comunità basata su livelli di “complessità assistenziale”, superando separatezze e incomprensioni.

Bisogna formare insieme operatori sanitari, sociosanitari e sociali e darsi sistemi comuni di valutazione dei pazienti come “persone” nella loro complessità clinica e sociale.

3. Task shifting e formazione di nuove figure professionali.
Per gestire tutto questo abbiamo bisogno di più medici, più infermieri, più operatori sociosanitari e sociali tornando ad investire sulla loro formazione in base a nuovi profili professionali orientati allo sviluppo delle nuove competenze tecniche e relazionali necessarie per dare gambe al rinnovamento e alla qualificazione del sistema sanitario pubblico.

È necessario mettere mano ai programmi dei corsi di laurea, in specie di medicina, per aprirli a competenze gestionali di “qualità” e “sicurezza” delle cure in un approccio di multi professionalità e interdisciplinarietà e di lavoro di gruppo in equipe e team “integrati”.

Occorre ripensare le competenze tecniche e relazionali dei professionisti in un approccio necessariamente di “one health”.

La centralità della sanità pubblica vuol dire anche costruire percorsi di carriera, attività di aggiornamento e di ricerca, di implementazione digitale e tecnologica, di ridefinizione dei ruoli, delle mansioni, delle competenze garantendo non solo il “turnover” del personale, ma anche il suo sviluppo e la sua qualificazione.

Bisogna far crescere le motivazioni per far scegliere la sanità pubblica ai giovani professionisti ed operatori in una logica di appartenenza ad un sistema riconosciuto e apprezzato dal resto del sistema Paese.

4. Un nuovo paradigma assistenziale: un nuovo sistema di valorizzazione delle prestazioni
I sistemi di valorizzazione delle prestazioni vanno rapidamente cambiati passando dai DRG, che comunque devono basarsi su “costi standard italiani”, verso un approccio “value based” legato ai PDTA, ai PAC, ai PAI, ai PIdS e quant’altro possa essere utile “per seguire il percorso del paziente” nei servizi del sistema.

Nel nostro SSN, questo implica iniziare a confrontare:

  1. I risultati di salute, gli outcome clinici e gli outcome assistenziali come i Patient - Reported Experience Measures (PREMs) e i Patient Reported Outcome Measures (PROMs);
  2. “Quanto vale” per il paziente, ad esempio in termini di qualità della vita,
  3. Le risorse impiegate, gli investimenti e la formazione del capitale umano delle organizzazioni.

La centralità del paziente diventa, quindi, un paradigma clinico assistenziale, ma anche economico e finanziario. Il paziente deve essere il “centro di costo” del sistema sanitario.

Il tutto in un approccio “prudent healthcare”, ovvero in grado di:

  1. Traguardare Salute e Benessere della collettività, dove pazienti e professionisti sono come partner alla pari attraverso la compartecipazione;
  2. Presa in carico in primo luogo di coloro che hanno maggiori e stringenti bisogni di salute, con efficiente impiego di tutte le abilità e risorse;
  3. Fare solo ciò che è necessario, né più, né meno, evitando rischi inutili e danni al paziente;
  4. Ridurre la variabilità ingiustificata e le diseguaglianze nei trattamenti, utilizzando pratiche basate sull'evidenza in modo coerente e trasparente.

Infine occorre declinare la centralità della persona, partendo da sperimentazioni mirate, modelli organizzativi, di valutazione e di finanziamento basati sul valore (value based healthcare) per programmare l’allocazione delle risorse in modo utile ed equo, dando nuovo senso e sostanza al nostro “universalismo”.

Caterina Elisabetta Amoddeo
Già Direttore Sanitario AO “San Camillo”, Roma, Vice Presidente Nazionale ASIQUAS

Giorgio Banchieri
Docente DISSE, Università “Sapienza”, Roma, Segretario Nazionale ASIQUAS

Maurizio Dal Maso
Healthability, Firenze, membro CDN ASIQUAS

Antonio Giulio De Belvis
Docente Fondazione Policlinico “A. Gemelli” – IRCCS, Roma, Membro CDN ASIQUAS

Emanuele Di Simone
RN, PhD in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica, socio ASIQUAS

Silvia Scelsi
Presidente Nazionale ANIARTI, Presidente Nazionale ASIQUAS

Andrea Vannucci
Docente Università di Siena, membro CD Accademia di Medicina, Genova, socio ASIQUAS



28 aprile 2023
© Riproduzione riservata


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