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I primi “lockdown” della storia. Come Venezia riuscì ad arginare e poi sconfiggere la peste nel 1600


'Guardarsi da chi non si guarda’, presentato all’ISS il volume che racconta come Venezia per prima nel mondo ha controllato la malattia.

20 SET -

Il Covid-19 non è stata certo la prima epidemia della nostra storia e le quarantene non sono una novità. Tra il 1629 e il 1633 l’Italia venne letteralmente travolta dalla peste, soprattutto nelle aree settentrionali. La cosiddetta peste bubbonica, descritta ne “I promessi sposi” (e per questo conosciuta anche come peste manzoniana), ricordata all’estero, non a caso, come “peste italiana”, raggiunse l’apice di contagi e di morti nel 1630.

Ma ecco che poco dopo cominciò ad allentare la presa e ad uscire dalla laguna veneta per non farvi mai più ritorno, pur continuando a imperversare negli altri Stati europei. Come è riuscita la Repubblica di Venezia a controllare la pandemia? La risposta a questa domanda si snoda lungo tutte le pagine del libro Guardarsi da chi non si guarda (Cierre edizioni 2022), scritto da Nelli-Elena Vanzan Marchini, esperta di storia della sanità, e presentato oggi nell’Aula Bovet dell’ISS.

Il Senato Veneziano – spiega l’autrice nel libro - aveva inventato il primo lazzaretto della storia nel 1423 e poi un secondo nel 1468, riservato ai sospetti e ai guariti. Fu proprio in queste strutture che si articolò la politica della prevenzione quando, due secoli dopo, comparve la peste. Una prevenzione basata sull’utilizzo metodico delle quarantene che variavano da 7 fino a 40 giorni: mentre la scienza medica brancolava nel buio, questi periodi di isolamento dilatarono i tempi e gli spazi fra persone e merci infette e i territori veneziani, garantendo lo svolgimento delle attività commerciali in sicurezza.  La comunicazione di massa per invitare ad accettare l’emarginazione temporanea nei lazzaretti fu affidata alla promozione del culto di San Rocco, invocato fin dal Medioevo come protettore dal flagello della peste.


 

Era obbligatorio esibire le bollette o fedi di sanità, cioè le certificazioni rilasciate dai luoghi di partenza, attestanti che non vi era peste in corso; al manifestarsi invece di casi conclamati venivano attivate le restrizioni con i paesi di provenienza: una sorta di tracciabilità ante litteram degli spostamenti di persone, animali e merci. La Repubblica di Venezia inserì l’utilizzo metodico di tali passaporti sanitari in un sistema complesso di uffici periferici, di strutture di quarantena e di posti di blocco ai confini e lungo le maggiori arterie di comunicazione di terra e di acqua. Il suo Magistrato alla Sanità, a differenza degli altri Stati, praticò costantemente, anche in epoca di quiete dal morbo, il monitoraggio dei flussi epidemici nella consapevolezza che le pandemie, che continuavano a circolare fuori dai suoi domini, potevano tornare ad aggredire la Serenissima. 

Si capì presto che le barriere spazio-temporali funzionavano se praticate con tempestività, perciò venne organizzato un articolato sistema internazionale di raccolta delle informazioni attraverso una rete di controllori ufficiali: ambasciatori, consoli, capitani di nave che furono affiancati da un lavoro di intelligence eseguito da informatori segreti e spie di sanità.  I dati recepiti, appena rivelavano focolai epidemici, venivano diffusi tramite migliaia di proclami per comunicare alle altre nazioni le misure di prevenzione e i tempi di isolamento di merci e passeggeri stabiliti da Venezia.

Il sistema funzionava talmente bene che all’inizio del Settecento gli altri Stati cominciarono a chiedersi se non fosse opportuno imitare il modello di organizzazione sanitaria della Repubblica marinara sintetizzato proprio nel monito: “guardarsi da chi non si guarda”. Ad indicare la necessità di assumere misure preventive nei confronti di chi non ne adottava per fede o per ignoranza, come all’epoca i popoli dei Domini Ottomani.

Fonte: Iss



20 settembre 2022
© Riproduzione riservata


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