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“Nutrire l’impero”: a tavola con gli antichi Romani

di Maria Rita Montebelli

Un’avvincente mostra, da poco inaugurata presso il museo dell’Ara Pacis di Roma, offre un resoconto dettagliato delle abitudini alimentari dei Romani in epoca imperiale, quando Roma era una metropoli da un milione di abitanti. Un trionfo di verdure e cereali, carne di maiale, formaggi. Ma sulle mense dei ricchi non mancavano ostriche, vini pregiati e bizzarrie di ogni tipo. E c’era anche lo street food.

11 AGO - L’alimentazione dell’antica Roma non era certo a chilometri zero. In età imperiale infatti i consumi, a tavola e non, erano decisamente global. Vini dalla Gallia, da Creta e da Cipro, olio andaluso, miele greco e garum dal nord Africa, facevano bella mostra di sé sul desco delle famiglie più in vista. E anche un alimento di uso comune come il pane, era in realtà un prodotto glocal, cotto cioè nei forni locali, utilizzando però il grano importato dall’Egitto. I più abbienti, non si facevano mancare prelibatezze di ogni tipo, dalla vulva di scrofa, alle lingue di pappagallo. L’élite romana era inoltre grande estimatrice di pesce pregiato e di ostriche, che Plinio definiva il ‘premio delle mense’ e che venivano presentatesuun letto di neve(altra merce rara e preziosissima), ‘per unire la cima dei monti alla profondità del mare’.
Nell’arco temporale dal 27 a.C. al 337 d.C., da Augusto a Costantino, Roma è stata una metropoli da più di un milione di abitanti. Nutrire una tale moltitudine poneva non pochi problemi ovviamente, e richiedeva l’organizzazione di un sistema di trasporti commisurato ai bisogni.
A raccontare i consumi e l’industria alimentare dell’Antica Roma provvede la mostra “Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma a Pompei” allestita presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma e in programma fino al 15 novembre di quest’anno.
 
Il tempo scandito dal cibo. Le danze ‘alimentari’ nell’antica Roma si aprivano al mattino, con una colazione (ientaculum) a base di pane, formaggio e uova. Il pranzo (prandium) era poco più che uno spuntino, consumato a casa o più spesso presso le ‘tavole calde’ dell’epoca (thermopolia e popinae); lo spuntino da consumare il pomeriggio alle terme si poteva acquistare infine anche in strada da venditori ambulanti.
La cena non si faceva attendere e veniva consumata verso le quattro del pomeriggio, dopo un pomeriggio trascorso alle terme. Quando consumata in casa, consisteva in un antipasto e un piatto di carne, o in una zuppa di verdure e legumi. Ma se diveniva l’occasione per un incontro tra amici (convivium) poteva trasformarsi in un vero e proprio banchetto di più portate, capace di soddisfare i palati più capricciosi, ab ovo usque ad mala, cioè dalle uova, che aprivano le danze, alla frutta.
L’antipasto (gustatio) tipico comprendeva uova, olive, frutti di mare, verdure ed era innaffiato di mulsum, il vino mielato. Il cuore della cena (mensa prima o caput cenae) era invece costituito di pietanze a base di carne e pesce. A chiudere il banchetto provvedevano le secundae mensae, dolci e frutta, anch’esse accompagnate da buon vino.
 
La spesa ai mercati dell’antica Roma. Il primo mercato (macellum) dell’antica Roma, costruito nel III secolo a.C. sorgeva nell’area che sarebbe stata in seguito occupata dal Foro della Pace, a metà dell’attuale via dei Fori Imperiali. Il più grande mercato romano mai realizzato è stato però il Macellum Magnum, fatto costruire da Nerone sul colle Celio nel 59 d.C. Il macellum era specializzato nella vendita di merci pregiate, quali pesce, molluschi. Ai mercati si vendevano anche carne, salumi, cacciagione e forse il garum. Al mercato si potevano assumere anche cuochi e non mancava mai un’area di culto intitolata a Mercurio o a Nettuno, gli dei protettori del commercio.
 
Al Molo di Tor di Nona, scalo fluviale nel tratto settentrionale del Tevere, approdavano invece le merci (legno da costruzione, olio, vino) provenienti dall’entroterra etrusco, umbro e sabino, trasportate via fiume su barche e zattere. Qui venivano sbarcate anche le botti di vino fiscale, aggiunte dall’imperatore Aureliano alla distribuzione annonaria, che venivano trasportate al Tempio del Sole (situato in corrispondenza dell’attuale piazza San Silvestro). Il vino veniva qui venduto a prezzo politico, cioè calmierato, alla plebe annonaria.
 
Il grano, elemento base dell’alimentazione dei romani. Per avere un’idea delle necessità alimentari della Roma imperiale, secondo la stima degli storici, le quantità di grano importate ogni anno dall’Egitto e dalle province romane del nord Africa (Tunisia, Algeria, Libia) si aggiravano tra i 50 e i 60 milioni di moggi (350-420.000 tonnellate). Queste enormi quantità di grano venivano stipate nei magazzini di Portus, l’imponente porto marittimo voluto da Claudio e successivamente ampliato da Traiano e Settimio Severo, situato a nord di Ostia; da qui il grano veniva trasportato via fiume, per essere depositato nei monumentali magazzini (horrea) dell’Emporium romano, nell’attuale quartiere romano di Testaccio.
 
Responsabile dell’approvvigionamento alimentare di Roma era il prefetto dell’Annona, nominato direttamente dall’imperatore e figura chiave anche da un punto di vista politico; da lui dipendevano infatti anche le distribuzioni gratuite di grano (le frumentationes), riservate alla plebs urbana et romana (o plebe frumentaria), ovvero a circa 200 mila cittadini romani maschi, adulti e residenti, che ogni mese ricevevano gratuitamente dallo stato 5 moggi di grano a testa (35 Kg). Le distribuzioni gratuite di grano avvenivano ogni mese presso la Porticus Minucia, in corrispondenza dell’odierno Largo Argentina. In seguito, Aureliano introdusse le distribuzioni giornaliere di pane in vari punti della città, i graduus.
 
Nella sua ‘Storia Naturale’, Plinio ricorda che i Romani erano vissuti a lungo mangiando puls, una specie di polenta di farro tostato e macinato, mescolata a latte e accompagnata da verdure o, per i più fortunati, da carne. Il pane entra a far parte della dieta solo nel IV secolo a.C., quando arriva il grano nudo (triticum), dal quale veniva ricavata una farina adatta all’impasto, che veniva cotto nei forni casalinghi. Nella prima metà del II secolo a.C. arrivano i pistores, figure che controllavano tutta la filiera della panificazione, dall’acquisto e molitura della farina, alla distribuzione del pane. E che si trattasse di una professione molto remunerativa lo dimostra la tomba monumentale del più famoso di loro, Eurisace, collocata subito fuori Porta Maggiore, location di lusso, in quanto visibile a tutti quelli che entravano a Roma provenienti dalle vie Prenestina e Casilina.
 
L’olio, oro del desco e luce nelle tenebre.Intorno al 140 d.C. (tra il regno di Adriano e quello di Antonino Pio), il procuratore dell’Annona diventa responsabile anche dell’approvvigionamento dell’olio per la Roma imperiale; ogni anno ne veniva importatori dalla Betica (Andalusia) e dall’Africa una quantità pari ad almeno 260.000 anfore, cioè circa 156.000 ettolitri, che venivano depositati nei giganteschi horrea di Testaccio. In questi magazzini, i più grandi di Roma e del Mediterraneo trovavano posto infatti non solo grano e altre derrate solide, ma anche vino e olio, come testimonia il Monte Testaccio, 30 metri per 1500 metri di perimetro, spuntato da nulla tra il I e il III secolo d.C. grazie al sistematico accumulo dei ‘cocci’ delle anfore olearie, giunte fin qui dalla Betica (Andalusia).
 
Le grandi quantità di olio importate a Roma non erano riservate solo all’alimentazione, ma venivano utilizzate anche per illuminazione, riscaldamento, cosmetica e anche uso medico. Sulle tavole dei buongustai si ritrovava l’olio italiano, in particolare quello prodotto in Liguria o a Venafro (Molise). E l’olio molisano doveva essere davvero il non plus ultra, stando a quanto testimoniato da Orazio, Marziale, Giovenale, Plinio e dal greco Strabone, che cita Venafro come la località da cui ‘proviene l’olio migliore’. L’olio spagnolo era destinato al consumo popolare, mentre quello africano, di scarsa qualità, era utilizzato per l’illuminazione fino al I-II secolo d.C. In seguito però, grazie al grande impulso dato all’olivocoltura nelle province del nord Africa e alle distribuzioni gratuite di olio concesse alla plebe romana da Settimio Severo, il primo imperatore africano di Roma (nato a Leptis Magna, Libia), anche l’olio africano, ritirato quotidianamente presso le mensae olearie, presenti in vari punti della città, arriva sul desco dei romani.
 
Vino, per tutte le tasche. Fino ai primi secoli dell’impero, il vino era bevanda destinata ai ‘ricchi e famosi’, ma con Aureliano (270-275 d.C.) diventa oggetto di distribuzione a prezzi calmierati, per quei 200 mila romani che già ricevevano gratuitamente grano e olio.
Grandi vigneti esistevano nell’Italia centrale già a partire dal II secolo a.C., ma molto più importante era la produzione di vino dalla Spagna tarragonese e dalla Gallia. Anche dalla Grecia, dall’Anatolia (Asia Minore) e dalla Mauretania (Marocco) provenivano navi cariche di anfore di vino destinate alle maggiori città del Mediterraneo ma in particolare alla Roma crapulona, che di questa bevanda ne consumava tra 1,6 e 2 milioni di ettolitri l’anno. I grand crus, restavano comprensibilmente appannaggio di una ristretta élite e nulla avevano a che fare con il vino destinato al popolo e all’esercito, spesso annacquato e consumato sia caldo che freddo.
 
Roma, la civiltà dell’acqua. Se c’era un cosa che non mancava a Roma, questa era l’acqua. Sorta sul Tevere e a due passi dal mare, la capitale dell’impero era anche ricca di fonti naturali e coronata di monti dotati di grandi riserve idriche. Ma fu la costruzione dei grandi e imponenti acquedotti ad arcate a fare la differenza e a consentire la costruzione di grandiose terme pubbliche. A controllare l’acqua di Roma, sotto la guida di un magistrato, il curator aquae, nominato direttamente dall’imperatore, c’era un vero e proprio esercito di operai specializzati e di ingegneri idraulici (familia aquaria). L’acqua era pubblica, un dono prezioso per tutti. Già alla fine del I secolo d.C. a Roma l’acqua sgorgava da 561 fontane, ma nel 235 d.C. Roma arrivò ad essere rifornita da ben 11 acquedotti, che erogavano 1 milioni di metri cubi di acqua al giorno. Sarà necessario aspettare il XX secolo per rivedere di nuovo tanta acqua a Roma.
 
Il garum, per stuzzicare il palato. Uno dei condimenti più apprezzati dell’antica Roma era una salsa a base di pesce, salato e lasciato macerare a lungo al sole. Nonostante l’odore ripugnante (Seneca lo definiva ‘la preziosa poltiglia di pesci andati a male’), i romani non esitavano ad allargare i cordoni della borsa per aggiudicarsene le varietà più prelibate, come il sociorum, proveniente dalla Betica (Spagna), a base di sgombro. Le più importanti ‘fabbriche’ di garum spagnolo si trovavano nei pressi di Cadice, subito a nord dello stretto di Gibilterra. Altra varietà molto apprezzata era quella di Pompei, dove si produceva un garum a base di ‘zerro’ (spicara smaris), un pesciolino comune nei fondali di poseidonia.
E il garum non era impiegato solo come esaltatore del gusto. Galeno, celeberrimo medico romano, ne indica infatti 32 possibili applicazioni in ambito medico; il garum veniva infatti sfruttato anche per le sue capacità cauterizzanti e disinfettanti.
 
Trionfi vegetariani: ortaggi, verduree frutta. I Romani di età repubblicana avevano un’alimentazione molto spinta sul versante vegetariano, tanto che Plauto li definisce ‘mangiatori di erbe’. L’imperatore Tiberio tutti i giorni consumava cetrioli in grandi quantità, mentre Orazio, quando non era invitato a cena fuori, chiudeva la giornata con la sua amata zuppa di porro, ceci e lagana. Sul desco dei romani arrivavano rape, carote, ravanelli, agli, cipolle, porri, zucchine, cetrioli, asparagi, carciofi, cavoli ma anche insalate e vari tipi di legumi, che assicuravano una discreta quota proteica. Tra i frutti maggiormente consumati, oltre all’uva, diverse varietà di mele, pere, pesche, agrumi, fichi, melagrane, ciliegie, susine, sorbe e persino datteri.
 
Le carni: dall’onnipresente maiale, all’orso, al ghiro. Pecore e capre rappresentavano una risorsa alimentare importantissima su tutto il territorio dell’impero, non solo per le carni, ma anche per il latte, che veniva quasi tutto trasformato in formaggio. Gli agnelli erano riservati alle mense più esclusive, mentre le carni degli animali adulti finivano su quelle della plebe. La carne più consumata era però quella di maiale, che veniva cucinato in mille modi (solo Plinio ne elenca più di 50 ricette). Sotto l’imperatore Aureliano la carne di maiale comincia ad essere distribuita gratuitamente ai cittadini romani; durante l’inverno ne veniva macellata e distribuita gratuitamente una quantità pari a 10 tonnellate al giorno; un avente diritto cioè nell’arco di 5 mesi, ne riceveva 8 chili e le distribuzioni avvenivano nel forum suarium, tra il Pincio e l’attuale piazza Santi Apostoli. Anche il pollame era ampiamente consumato, sia quello da cortile (galline, piccioni, oche, anatre), che la cacciagione (pernici, fagiani, gru).  E sulle mense dei romani non mancavano neppure ricercatezze quali cervi, caprioli, lepri, ma anche ghiri, orsi, rane e lumache.
 
Pesce e frutti di mare. Secondo Plinio, il pasto più sontuoso era quello di tre portate, di cui una a base di murena, una di pesce lupo e l’altra di pesce misto. La varietà più pregiata di pesce lupo era il lupus tiberinus, pescato nel Tevere, ma secondo altri era meglio quello pesato in mare aperto. Il Tevere forniva anche pescetti di dimensioni più modeste, destinati alle mense più povere. Altra prelibatezza erano le triglie, ma solo se di grossa taglia (superiore a 2-3 libbre); le migliori provenivano dalla Corsica o da Taormina. Molto apprezzate anche le anguille e le murene siciliane. Ma protagoniste assolute delle tavole erano le ostriche, servite dai più raffinati su un letto di neve, altra merce rara, della quale non è difficile immaginare le difficoltà di approvvigionamento e di trasporto.
 
Lo street food.  Thermopolia e popinae erano l’equivalente dei nostri bar e tavole calde, una salvezza quando i morsi della fame coglievano in mezzo alla strada, lontano dall’ora di cena. Protagoniste le uova, che venivano servite nelle popinae insieme a fegatini e cipolle, o semplicemente bollite o fritte in padella. Salsicce e pezzi di carne forse essiccata, si ritrovano anche nel menu di questi locali, come anche il formaggio. Trippa, zampe e interiora (intestini, polmone, cuore e forse fegato), cucinate nel grasso venivano cotte nelle osterie e vendute anche agli angoli delle strade e consumate magari in seguito alle terme.
Molto gradite anche le focacce ancora calde, magari cosparse di miele e naturalmente il pane, mangiato anche insieme all’uva o ai datteri, per chi poteva permetterselo. Le ‘tavole calde’ romane preparavano anche delle invianti zuppe di verdure e legumi. I ceci venivano consumati nelle minestre, ma anche fritti nel garum, spolverati di pepe e serviti insieme alle noci. I ceci caldi venivano venduti a prezzi popolari: un asse, come ricorda Marziale. Tanto quanto bastava ad assicurarsi anche la compagnia di una ‘Venere’ locale. Frequentare le popinae, aiutava infatti a placare anche altri appetiti.
 
Realizzata in occasione di EXPO 2015, l’appetitosa e godibilissima mostra “Nutrire l’Impero” è promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Roma - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dall’Assessorato a Roma produttiva e Città Metropolitana e da EXPO, ed è curata dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e della Soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia. Ben allestita presso il Museo dell’Ara Pacis (Lungotevere in Augusta, Roma), la mostra è rigorosa dal punto di vista scientifico ma adatta anche al grande pubblico. Inaugurata a luglio, è visitabile tutti i giorni fino al 15 novembre prossimo. Per info: www.arapacis.it e www.museiincomuneroma.it.
 
Maria Rita Montebelli

11 agosto 2015
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