Alopecia areata: scoperta la cura
di Maria Rita Montebelli
In uno studio pubblicato su Nature Medicine, il percorso della straordinaria ricerca condotta alla Columbia University: dall’individuazione delle cellule responsabili di questa malattia autoimmune, al successo della sperimentazione della cura con un JAK inibitore sono passati appena 4 anni
19 AGO - Quattro anni fa la notizia dell’individuazione delle cellule responsabili dell’alopecia areata, un sottotipo di linfociti T che attacca il follicolo pilifero dei pazienti con alopecia areata, ‘colpevole’ di aver lanciato un ‘segnale d’allarme’. Oggi, dalle pagine di
Nature Medicine, gli stessi ricercatori della
Columbia University Medical Center (CUMC) di New York, danno la notizia, che un farmaco, approvato dall’FDA per patologie ematologiche, è efficace nel bloccare l’attacco autoimmune messo in campo da queste cellule.
Il trattamento, a base di JAK inibitori, è stato in grado di ripristinare, dopo appena 4-5 mesi di trattamento, la normale crescita dei capelli in tre pazienti con alopecia areata di grado moderato-severo, trattati nell’ambito di un piccolo
trial clinico ancora in corso.
L’alopecia areata è una patologia autoimmune, relativamente frequente, che causa la perdita dei capelli e dei peli (alcuni pazienti perdono i capelli ‘a chiazze’, solo in alcune zone del cuoio capelluto; altri perdono non solo tutti i capelli, ma anche i peli, in tutte le parti del corpo). La malattia colpisce in ugual misura entrambi i sessi, può esordire a qualunque età e provoca in genere un grave e duraturo stress psicologico a chi ne è affetto. Alla base di questa malattia, c’è un attacco delle cellule del sistema immunitario contro i follicoli piliferi, che causa la caduta dei capelli o la loro entrata in una fase ‘letargica’.
Circa 4 anni fa, uno studio sulla genetica dell’alopecia areata, condotto su oltre mille persone dalla professoressa
Angela M. Christiano, Dipartimento di Dermatologia e Genetica del CUMC, ha consentito di individuare il tipo di cellule immunitarie responsabili della malattia; alla base del disturbo ci sarebbe un ‘segnale di pericolo’ lanciato dai follicoli piliferi del paziente che gli scatenerebbe contro un attacco immunitario. Nello studio pubblicato oggi su
Nature Medicine,
Raphael Clynes, primo autore della ricerca,
Angela M. Christiano e colleghi descrivono il percorso fatto per arrivare a questi risultati.
I ricercatori americani hanno prima testato nei topi con alopecia areata l’efficacia dei due JAK inibitori attualmente disponibili sul mercato americano (ruxolitinib e tofacitinb); entrambi i farmaci si sono dimostrati validi nell’interrompere l’attacco immunitario e nel consentire la completa ricrescita del pelo negli animali nell’arco di 12 settimane. L’effetto della terapia è perdurato per mesi, dopo la sospensione del trattamento.
A questo punto, in collaborazione con
Julian Mackay-Wiggan, direttore della
Clinical Research Unit presso il Dipartimento di Dermatologia del CUMC, il gruppo di
Clynes e
Christiano, ha avviato uno studio clinico in aperto su un piccolo gruppo di pazienti con alopecia areata di grado moderato-severo, con il ruxolitinib, farmaco approvato dall’FDA per patologie ematologiche. In tre pazienti, dopo 4-5 mesi di trattamento il ruxolitinib ha ripristinato completamente la crescita dei capelli (vedi immagine,
credits Julian Mackay-Wiggan).
“Abbiamo appena iniziato a testare questo farmaco sui pazienti – commenta il dottor
Clynes – ma se il trattamento continua a dare questi risultati e a mostrarsi sicuro, avrà un impatto incredibilmente positivo sulla vita delle persone affette da questa malattia. E’ necessario continuare la sperimentazione prima di stabilire se il ruxolitinib possa essere utilizzato nell’alopecia areata, ma i primi risultati sono assai promettenti”.
“Questo studio – commenta
David Bickers, direttore del Dipartimento di Dermatologia del CUMC-rappresenta un’incredibile esempio di scienza traslazionale: in appena quattro anni si è passati dal risultato di uno studio sulla genetica dalla malattia, ai risultati positivi di un trial clinico. È un eccezionale passo in avanti nel migliorare lo standard di cura dei pazienti affetti da questa malattia devastante”.
Maria Rita Montebelli
19 agosto 2014
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