Sucidio assistito. Obiezione di coscienza non serve perché per il medico non c’è nessun obbligo
di Antonio Panti
24 NOV - Gentile Direttore.
su QS di sabato il
Presidente Anelli ha commentato la sentenza 242 della Corte Costituzionale che depenalizza in determinate condizioni il suicidio assistito, con una dichiarazione che condivido del tutto. A mio avviso non importa modificare il Codice Deontologico. Se il medico x, recependo la richiesta di y che si trova nelle condizioni cliniche t (previste dalla Corte), decide di aiutare il paziente secondo al procedura M (sempre indicata dalla Corte), una volta verificato tutto questo da parte del Presidente dell'Ordine, il medico x diviene non punibile sul piano deontologico.
Rispetto alle dichiarazioni del Presidente ritengo che non sia necessario mai ricorrere all'obiezione di coscienza in quanto la Corte ha ben chiarito che la sentenza in oggetto "non crea alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici". Affermazione che quasi costituzionalizza l'art. 22 del vigente Codice Deontologico.
Noto piuttosto, prima ancora di ascoltare il parere dei giuristi, che la Corte ha detto molto di più rispetto alla mera dichiarazione di illegittimità costituzionale del 580 nella parte in cui non prevede la possibilità di dare aiuto alla persona sofferente che si trovi nelle condizioni previste (t), in tal modo affermando il principio costituzionale di autodeterminazione.
La Corte va assai oltre, mi sembra di capire avvalendosi dei "propri poteri di gestione del processo costituzionale", e indica una procedura (chiamiamola M) la quale implica la soluzione di alcune questioni che la FNOMCeO e il Ministero dovrebbero chiarire a meno che non si lasci tale incombenza alle Regioni (ad esempio in Toscana al Comitato Regionale di Bioetica).
La Corte, di fronte a un soggetto y nelle condizioni t, per prima cosa ritiene (già nell'ordinanza 207/18) quale prerequisito l'offerta di cure palliative onde "non cadere nel paradosso di non punire l'aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l'effettività del diritto alle cure palliative". Non è questione da poco il grave ritardo attuativo della l. 38/10! Spero che il Ministro convochi presto le Regioni per trovare un minimo di risorse ad hoc.
Questa potrebbe essere l'occasione anche per riflettere sull'art. 5 della 219/17 e sulla necessità prioritaria di creare un atteggiamento palliativo in tutti i medici.
La Corte chiama in causa il medico che valida le condizioni del richiedente, certificandole, con un certificato ricognitivo e quindi obbligatorio. E' evidente trattarsi del medico o dell'equipe medica che garantisce l'assistenza ai sensi della l. 219/17 e che proseguirà in tale incombenza fino al termine della vita del paziente.
La Corte prevede la "verifica" da parte delle strutture pubbliche del SSN. Mi sembra che se il medico è dipendente o convenzionato nulla quaestio, se è libero professionista non so cosa debba verificare il SSN, l'iscrizione all'albo?
In effetti questo compito di verifica potrebbe essere ricompreso nell'intervento previsto del Comitato Etico territorialmente competente. La Corte, introducendo questa ulteriore garanzia per il paziente, forse non si rende conto che in quest'ambito c'è un pò di confusione. La Corte prevede "l'intervento di un organo terzo, munito delle adeguate competenze, che possa garantire la tutela di situazioni di particolare vulnerabilità" in quanto organo deputato alla tutela dei valori e dei diritti della persona.
Domande: si ricorre ai CE per la sperimentazione sull'uomo o a quelli locali? E come integrarli alla bisogna? Il curante va sentito o ne è parte integrante? Si propone un unico comitato regionale ad hoc?
Inoltre la Corte sancisce la non punibilità dell'aiuto suicidario purché siano state seguite le indicate procedure e "tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del SSN, previo parere del Comitato Etico territorialmente competente".
Cosa verifica il SSN? Per la Corte "le modalità di esecuzione". Allora: si predispone una linea guida? A mio sommesso parere no, non ve ne è bisogno clinico e mi sembra inopportuna. Inoltre: l'esecuzione dell'atto suicidario può avvenire anche domicilio e con quali garanzie (verificate dal SSN)? Oppure l'esecuzione avviene nel SSN e, in tal caso, nei singoli reparti? Eviterei una stanza ad hoc per ovvie ragioni apotropaiche, politiche e di immaginario collettivo.
Infine il SSN si deve far carico, secondo al Corte, della sorveglianza della procedura. Si chiama ancora in causa il medico non per la somministrazione ma per la sorveglianza clinica e vale comunque quanto detto in sentenza sulla assoluta mancanza di obbligo da parte dei medici.
Resta insoluto, a mio avviso, il problema della ricettazione perché la farmacia ospedaliera (non penso si possa ricorrere alle farmacie territoriali) non può consegnare un farmaco senza il dosaggio. Credo che tutto possa rientrare nel rispetto della coscienza del medico che decide di aderire o no alla giustificata e costituzionalmente ammissibile richiesta suicidaria.
Al termine di questo primo excursus, fatalmente incompleto, resta fuori la questione dei sostegni vitali, la cui obbligatoria presenza contrasta con lo spirito della sentenza, così come sussiste in pieno, e appesantisce il ragionamento della Corte, il timore che si trasformi in complicate procedure un atto, come l'aiuto al suicidio in condizioni di insopportabile sofferenza, che deve rimanere nell'ambito della privacy e della relazione esclusiva tra medico e paziente.
Antonio Panti
24 novembre 2019
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