Lo “strano” caso dei tumori occupazionali
di Riccardo Falcetta
23 OTT -
Gentile Direttore,
in Italia, quando si parla di salute e lavoro, si parla di infortuni. In particolare, se ne parla quando ci sono le periodiche “stragi” sul lavoro. Infortuni sul lavoro “di gruppo”, potremmo definirli. Pochi conoscono i dati reali sulle cosiddette “morti bianche”: causate da infortuni sul lavoro, ma anche da malattie occupazionali e, tra queste, i tumori (circa il 60%).
Pochi sanno che, a fronte di circa settecento morti per infortuni sul lavoro (al netto delle morti “in itinere”) si stimano, molto probabilmente per difetto, circa settemila morti per tumori occupazionali all’anno. È pressoché inevitabile, quando si parla di tumori, che ognuno abbia, a portata di mano, una serie di gesti “scaccia sfortuna”. L’epidemiologia però ci fa sapere che abbiamo una possibilità su tre di ammalarci di tumore e, frequentemente, di morirne.
Un altro fatto di cui essere consapevoli è la differenza tra infortunio e malattia professionale. L’infortunio è un fatto violento, immediato. Provoca uno (o più) cadaveri immediatamente visibili. Un tumore occupazionale mortale provoca anch’esso un cadavere. Ma è il risultato di esposizioni a cancerogeni che risale, mediamente, a trenta – quaranta anni prima della diagnosi.
Usando una metafora: la diagnosi di tumore occupazionale è la luce di una stella: la vediamo oggi, ma la sua origine è avvenuta molti anni prima. Oggi facciamo diagnosi di tumori causati da esposizioni a cancerogeni occupazionali verificatesi negli anni settanta e ottanta del secolo scorso.
Per un infortunio l’indagine penale risponde ad una esigenza di giustizia, di indennizzo e di risarcimento della vittima. Serve a chiarire responsabilità ed eventuali violazioni delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Per un tumore occupazionale l’indagine penale deve rispondere alle stesse esigenze, ma è molto più difficoltosa per il fatto che, spesso, l’esposizione a cancerogeni occupazionali è spalmata su più aziende (ma la responsabilità resta individuale) e risulta impossibile da ricostruire, magari per il fatto (frequente) che le aziende non esistono più.
Quando si parla di esposizioni a cancerogeni occupazionali il pensiero corre all’amianto: anche i non addetti “al lavoro” sanno che l’amianto è cancerogeno per la pleura e per il polmone (ma non solo). Molti non sanno, però, che la I.A.R.C. (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) di Lione, nella sua qualità di organo tecnico della O.M.S (Organizzazione Mondiale per la Salute) ha individuato ben altri 120 agenti certamente cancerogeni per l’uomo (classe 1) e 82 agenti probabilmente cancerogeni per l’uomo (classe 2 A), molti dei quali presenti in ambienti di lavoro.
Infine, il lettore deve sapere che dall’aprile 2019 è in vigore una nuova legge che istituisce la “rete dei registri tumori nazionale” (L. 22.03.2019 – G.U. 05.04.2019) nella quale all’art.1 c.5 lett. b) si pone tra gli obiettivi “valutare l’incidenza dei fattori di carattere professionale sulla diffusione delle patologie oncologiche”.
Fatte le premesse torniamo al titolo. Perché il caso dei tumori occupazionali è “strano”? Risposta: per il fatto che solo meno del venti per cento di questi tumori viene individuato. Siamo di fronte ad una clamorosa sottonotifica. Di fronte al cadavere di un morto sul lavoro lo Stato si comporta in modi differenti a seconda che la causa di morte sia un infortunio (causa violenta, immediata, individuabile) ovvero una malattia tumorale occupazionale (causa remota nel tempo e di complessa analisi). Il risultato di un infortunio mortale è evidente e non c’è bisogno di cercarlo. Il risultato di un tumore occupazionale mortale è lo stesso, ma il cosiddetto nesso di causa è molto meno immediato, a meno che le cause non vengano cercate attivamente da medici del lavoro esperti.
Si può affermare, pertanto, che non esista tanto un tumore occupazionale, quanto un malato di tumore occupazionale. Per il fatto che un tumore è un tumore: la differenza la fa la risposta alla domanda: “Che lavoro ha fatto?”.
Conclusioni: sette-otto mila morti all’anno per tumore occupazionale si configurano, sicuramente, come un grave problema di salute per gli italiani. Individuare le cause dei tumori occupazionali è fondamentale per la prevenzione; per evitare, cioè, future esposizioni rischiose e cancerogene in ambiente di lavoro. Ma pongono anche un enorme problema di giustizia per le vittime di questa strage silenziosa: lavoratori e lavoratrici che si ammalano e muoiono per pregresse esposizioni cancerogene sul lavoro.
Compito per il neonato governo: 1) far funzionare i servizi territoriali e ospedalieri (cronicamente sotto organico) che si occupano di salute in ambiente di lavoro; 2) armonizzare la normativa (i professionisti che si occupano della questione non devono avere conflitti di interesse e, pertanto, ma devono potersi interessare solo della questione); 3) fare in modo che l’INAIL, nell’esercitare la sua funzione di assicurazione sociale, sia obbligato a non avere utili di esercizio che, oggi, si aggirano sui due miliardi di euro all’anno e sarebbero, pertanto, la mecca di una assicurazione privata; 4) garantire l’applicazione di un sacrosanto principio giuridico: “in dubio, pro misero” , favorendo la spesa di quelle risorse per indennizzare i malati (e i morti, nel caso dei tumori) per causa di lavoro.
Uno stimolo, dunque, per colui che, meritoriamente, a mio avviso, si è definito “avvocato del popolo” e un impegno che non aggiunga la beffa al danno per centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che, nei prossimi anni, si ammaleranno e, spesso, moriranno per un tumore da lavoro. Lavoro che era, è e rimane il concetto costituzionale su cui si fonda la nostra Repubblica.
Dott. Riccardo Falcetta
Medico del lavoro,Torino
23 ottobre 2019
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