Ha ancora senso parlare di “classificazione” per le professioni sanitarie?
di Dario Laquintana
15 APR -
Gentile Direttore,
il 9 Aprile scorso, a venti anni esatti dalla sottoscrizione del CCNL del 1999 che l’aveva vista nascere, si è riunita all’Aran la Commissione per la revisione del sistema della Classificazione prevista dall’articolo 10 del nuovo contratto di lavoro per il comparto della sanità, guidata dall’insostituibile Saverio Proia con lo scopo di aggiornare il sistema alle nuove professioni e alle mutate esigenze delle aziende.
La nascita del sistema della classificazione, alla fine del millennio, aveva avuto un effetto dirompente, consentendo il superamento del precedente sistema di inquadramento del personale del Servizio sanitario nazionale basato sulle posizioni funzionali ed i livelli definiti dal DPR 761/1979 che ingessavano l’evoluzione professionale.
Un infermiere iniziava a lavorare inquadrato in un livello e l’unico modo che aveva per evolvere professionalmente e migliorare la propria retribuzione era, di fatto, cambiare lavoro e fare il caposala, acquisendo un nuovo titolo e partecipando ad un nuovo concorso pubblico.
La classificazione rappresentava la creazione di un percorso di evoluzione professionale che consentiva il riconoscimento anche economico della maggiore competenza acquisita, tramite la progressione nel sistema.
Purtroppo l’applicazione della classificazione è stata contemporanea alla conversione della lira in Euro, che ha salvato l’economia italiana ma ha determinato, nell’immediato, una sostanziale diffusa riduzione del potere di acquisto dei salari.
Il sistema della classificazione si è trasformato in poco tempo in un salvagente economico facilmente utilizzabile in sede aziendale, per compensare ciò che non era possibile fare a livello nazionale.
Al grido di “una fascia in più per tutti” abbiamo assistito al riprodursi di accordi aziendali che anno dopo anno (e in alcuni casi anche due volte in un anno...) prevedevano l’erogazione di una fascia in più a tutto il personale con un criterio di valutazione dell’accresciuta competenza che nella stragrande maggioranza dei casi era legata all’esistenza in vita del beneficiario.
L’effetto è stato tale da imporre nel CCNL il vincolo di un passaggio ogni due anni ed aumentare le progressioni nel sistema della classificazione dalle iniziali quattro fino a sei. Ma neanche questo è bastato. Per “premiare” i dipendenti arrivati all’ultima progressione della categoria in alcuni casi sono state utilizzate risorse per la produttività collettiva erogando quote simili a quelle di una progressione ma distorcendo il fine dei fondi aziendali.
Oggi in molte aziende oltre un terzo dei dipendenti, quelli con più esperienza, sono giunti all’ultima fascia della loro categoria. Per loro, teoricamente i più esperti, il sistema classificatorio è già terminato.
Un sistema nato per durare 40 anni di vita lavorativa è stato bruciato in meno di dieci.
Cosa può fare la Commissione per la classificazione? Ridurre le categorie? Portare B/BS e D/DS a una sola categoria e aumentare di un paio di caselle la percorrenza dei dipendenti arrivati “a fine corsa”? Inserire il vincolo di tre anni tra un passaggio di fascia e l’altro? Prolungare l’agonia di un sistema che ha dovuto reggere anche l’effetto della crisi economica del 2010?
Oppure cambiare tutto?
Occorre ricordare che con il CCNL del maggio 2018 è cambiato lo scenario.
Con la nascita degli incarichi professionali accanto a quelli organizzativi si ha un cambio dì paradigma.
Per le professioni sanitarie e per i dipendenti collocati nella categoria D e DS dei ruoli amministrativo tecnico e professionale il riconoscimento della maggiore competenza passa tramite l’attribuzione degli incarichi funzionali non più per la classificazione.
Il sistema degli incarichi di fatto è mutuato dal contratto della dirigenza dove incarichi professionali e di struttura esistono da anni, ma non esiste la classificazione. È uno strumento diffuso, addirittura utilizzabile anche per i dirigenti con meno di cinque anni di anzianità.
Forse anche per le professioni è arrivato il momento di utilizzare il sistema degli incarichi per riconoscere una diversa professionalità.
Questo meccanismo consentirebbe di creare una situazione diffusa di incarichi professionali e di struttura che consentirebbe di rivedere profondamente l’organizzazione dei servizi affidando responsabilità specifiche agli operatori in relazione alla loro competenza e capacità e coerentemente all’assetto aziendale.
Incarichi di moduli organizzativi semplici potrebbero consentire l’implementazione di nuovi modelli organizzativi, come quello di primary nursing o di case management, o riconoscere ruoli organizzativi in ambiti dove non ha senso un coordinamento ma è necessario un riferimento.
Altri incarichi professionali aziendali e di reparto potrebbero essere definiti rispetto a tematiche specifiche (ad esempio esperto wound care o di rischio clinico, a livello di reparto e in collegamento con quello aziendale) stimolando lo sviluppo professionale e l’attività di studio e ricerca.
L’attribuzione degli incarichi stimolerebbe una reale crescita professionale ed una modificazione degli assetti organizzativi utile alle professioni, ai professionisti ed alle aziende.
Le risorse economiche potrebbero essere reperite destinando agli incarichi le quote economiche che attualmente sono in godimento dei dipendenti delle categorie D e DS che cessano dal servizio, numero che grazie anche all’effetto quota 100 potrebbe essere tale da garantire concretamente l’avvio del sistema.
I dipendenti che sono inquadrati in una categoria superiore a quella di accesso manterrebbero le quote come ad personam, risorse che al pensionamento potrebbero essere destinate al fondo per gli incarichi, costituendo nuova linfa vitale per il loro conferimento.
In questo modo i fondi potrebbero almeno in parte tornare ad essere utilizzati per lo scopo con cui erano stati creati mentre il sistema della classificazione potrebbe rimanere in vita per le categorie che non hanno accesso al sistema degli incarichi.
Resta un ultimo piccolo problema da risolvere. Gli incarichi professionali sanitari devono essere “liberati” dal vincolo che vuole, per gli specialisti, il possesso di un master conseguito secondo gli ordinamenti didattici universitari definiti dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’Università, su proposta dell’Osservatorio nazionale per le professioni sanitarie, mentre per quelli di esperto la partecipazione a percorsi formativi complementari regionali. I tempi per la creazione di questi percorsi sono troppo dilatati per poter rendere applicabile il contratto.
Basterebbe scrivere che fino alla data del compimento dei corsi universitari di cui all'articolo 16 comma 7 e 8 del CCNL 2018/2020 del 20/5/2018 l'incarico di professionista specialista e di
professionista esperto, per il personale del ruolo sanitario e dei profili di collaboratore professionale assistente sociale ed assistente sociale senior, è assegnato, in analogia a quanto previsto per il personale appartenete ai ruoli amministrativo tecnico e professionale, ad esito di procedura selettiva ai professionisti sanitari in possesso dei requisiti di cui all’art. 17 comma 5 del CCNL 2018/2020.
Poche righe fondamentali per rendere esigibile e viva una fondamentale ed innovativa parte del contratto per migliaia di professionisti che credo siano più che pronti ad affrontare nuove sfide.
Dario Laquintana
Dirigente delle professioni sanitarie
15 aprile 2019
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