Due macigni con cui fare i conti sul cammino della “quarta riforma”
di Antonio Panti (Omceo Firenze)
15 NOV -
Gentile Direttore,
ho commentato
pochi giorni or sono la proposta di "quarta riforma" di Ivan Cavicchi. Ci ritorno oggi dopo la vittoria di Trump e dopo aver letto i più disparati - disperati - commenti. Ripeto l'accordo sul concetto su cui Cavicchi fonda il suo pensiero.
Non è più tempo di pannicelli caldi. Il problema è drammatico: come tenere in vita (e non in stato vegetativo) una politica fondata sul sinallagma tra un diritto universale, quello alle cure, e un dovere simmetrico, quello di contribuirvi tutti; sul pari diritto alle prestazioni migliori e l'ugual dovere di evitare sprechi? Lascio ad altri, più competenti di me, il compito di addentrarsi nelle molteplici cause, sociali o antropologiche, di questo mutato pensiero che oggi sembra pervadere il mondo.
Mi fermo a qualche considerazione, anch'io di tipo vagamente "sociologico", sui medici. Sia perché li conosco meglio sia perché Cavicchi fa del loro rinnovato agire un pilastro della "riforma". Se questa si fonda sull'enfasi della produzione di salute rispetto alla pur necessaria cura delle malattie, è evidente che il ruolo dei medici e la loro libertà di azione ne sono un ineludibile fondamento.
La medicina un tempo era l'agire del medico. Con la nascita della clinica e l'esplosione delle conoscenze e delle tecnologie si comincia a distinguere tra sanità e medicina (la polizia medica di Frank). Tuttavia ancora la medicina la fanno i medici, anche se insieme a molti altri professionisti e anche se le scoperte e le innovazioni spesso nascono altrove. Eppure, nonostante i trionfi e le promesse della medicina, i medici appaiono a disagio e molto si discute di crisi della professione e del professionalismo.
Allora su cosa si può fondare la "riforma", se gli attori più importanti, almeno sul piano operativo, sono in crisi? Se oltre all'interlocutore politico, finora poco interessato alle vicende della sanità, anche i medici appaiono perplessi o increduli? A mio avviso non possiamo ignorare due questioni su cui chiedo di riflettere dal momento che trattasi di problematiche a sfondo più antropologico che sociale.
Non vi è dubbio che dopo il fatidico sessantotto il principio gerarchico, che ha retto nei secoli i rapporti sociali e intergenerazionali, è entrato in crisi. L'individuo postmoderno sembra sciolto da ogni vincolo che rispetti una scala di valori. Ma la professione di curante si fonda proprio sull'autorità del medico. La crisi dell'autorità mette in discussione la potestà delle cure che, pur mitigata dal riconoscimento dell'autodeterminazione della persona, valore ineludibile, tuttavia è elemento fondante della relazione di cura.
La fiducia nel medico non è paritaria e questa dissolvenza sociale è avvertita dai medici che non si sentono tranquilli nell'esercizio professionale, perché percepiscono il cambiamento nel rapporto con la gente ma non riescono a comprenderlo.
L'altra questione è la crisi del principio di "intermediazione esperta".Dallo sciamano al moderno clinico il valore dell'intervento del medico risiede sempre nel rivolgersi all'esperto nel momento del bisogno in quanto conoscitore dei misteri del corpo nonché intercessore nei confronti degli Dei o del moderno terzo pagante.
Che raccolga le erbe in un prato al chiaro di luna o riempia un ricettario virtuale, il medico rappresenta il mezzo per il soddisfacimento del bisogno perché ne è l'intermediario. Il maggior potere del medico risiede ancora nel decidere chi può definirsi malato onde fruire degli interventi sanitari e sociali.
Altresì è sotto gli occhi di tutti quanto nella gente sia diffuso il rifiuto di delega agli esperti (la casta) accusati di complottismo, di interessi privati, di voler rendere oscuro quel che chiunque può comprendere basta viaggiare su internet. E il tanto celebrato empowerment del cittadino non rischia di diventare un rincitrulliment? Come vivono i medici la crisi del ruolo di esperto intermediario?
Questi, a mio avviso, sono due macigni sul futuro della riforma come la intende Cavicchi. E non possiamo esorcizzare queste tendenze sociali con recriminazioni o rivendicazioni, care a alcuni Sindacati o Ordini, perché la realtà non cambia soltanto perché la vorremmo diversa.
Dobbiamo convincere i medici che occorre un nuovo patto con la società che salvaguardi il ruolo di curante ma riesca a inserirsi nelle trasformazioni presenti. Non si può imparare a nuotare senza tuffarsi nell'acqua.
Antonio Panti
Presidente Omceo Firenze
15 novembre 2016
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore