Gentile Direttore,
ho letto con molto interesse sia le dichiarazioni conclusive della seconda conferenza autoconvocata per la salute mentale sia l’intervento su Quotidiano sanità di Ivan Cavicchi e la tempestiva integrazione di Andrea Angelozzi.
Si può essere d’accordo o meno con Cavicchi ma non si può assolutamente ignorare che sa svolgere con determinazione e passione il ruolo di colui che sfida gli altri a pensare in modo non ortodosso.
Per principio ogni Dichiarazione sui diritti e sui valori con una forte connotazione etica è una professione di fede e in tale dimensione manifesta le sue potenzialità e i suoi limiti. La dichiarazione nasce dall’incontro di oltre 180 ( un numero nel destino) associazioni che rappresentano persone direttamente coinvolte nel tema della salute mentale, intesa nel senso più estensivo, e che pongono la necessità di tornare ad alcuni principi, che non sto qui ad elencare , dato che è molto più corretto leggerli direttamente alla fonte.
La prima affermazione che fanno Cavicchi ed Angelozzi è “i principi ripetuti o sotto forma di proclami non servono“ che si contrappone alla visione di chi ha stilato il documento che invece afferma questi principi sono necessari. Proviamo a partire da una domanda invece che da affermazioni ovvero che cosa serve oggi al sistema della salute mentale come servizio per la salute pubblica oggi?
Parto dalla convinzione che su questa domanda sia davvero necessario che tutta la varietà di soggetti che fa riferimento alla salute mentale si ritrovi a lavorare. Ciò però pone, immediatamente, un altro grosso problema: è identificabile, oggi, una comunità di intenti , di visione di idee fra tutti i protagonisti dello scenario della salute mentale?
Obbiettivamente i soggetti che hanno come missione la tutela della salute mentale si presentano in questo momento in ordine sparso e con distanze talora molto significative e questo non è utile a pensare a quali siano i principi organizzativi innovativi sui quali è possibile investire. A una visione etica/sociale se ne contrappone una basata sul successo delle “cure psicologiche” e di come, nel senso comune queste possano diventare quasi un riferimento del “vivere bene ( per provarlo basta fare un giro sui social ) dovendo poi considerare la psichiatria come disciplina medica che , una volta evoluta dentro un clima scientifico focalizza i problemi sul riconoscimento delle malattie ( la diagnosi) le cure appropriate ( terapie farmacologiche e non ), la verifica degli “esiti”. Nessuno, di buon senso, che faccia rifermento a queste aggregazioni culturali nega , in fondo, la necessità dell’altro , ma ciò che li contraddistingue è un credo basato su principi sulla cui ortodossia non è possibile discutere.
Non è che forse il problema sia che nessuna di queste fedi è in grado oggi di ispirare modelli organizzativi nuovi ed efficaci? Non è che la pratica, quella “operaia” , quotidiana nei servizi , quel confrontarsi ogni giorno con situazioni straordinarie sia più o meno consapevolmente in grado di produrre risposte che hanno magari solo il difetto di non identificarsi completamente con nessuna di queste “fedi”? Ed esiste un soggetto, una aggregazione, in grado di dare parole a questa pratica?
Credo che vada attentamente studiato il modo con cui i servizi di questa generazione di operatori, che non hanno mai conosciuto i manicomi, lavora discute e si confronta.
A questa domanda aggiungerei per definire modelli organizzativi nuovi è sufficiente difendere l’ortodossia dei valori che stanno alla base dell’esistente o non sarebbe invece più appropriato uno studio rigoroso non solo di come funziona (o no) il sistema per la salute mentale in Italia ma anche di quali sono le realtà fuori del nostro paese dove, invece, delle evoluzioni organizzative ci sono state?
E visto che le domande sono più utili delle affermazioni quali riteniamo siano i principi che vanno riformati affinché si possano delineare nuovi modelli organizzativi?
Provo a fare qualche considerazione:
1 Dalla chiusura dei manicomi la salute mentale è dentro il sistema della sanità pubblica e del sistema sociosanitario , ne condivide le difficoltà e si interfaccia costantemente con le sue problematiche . La crisi della salute mentale è anche la crisi del servizio sanitario così come lo conosciamo dal che si deduce che non è solo un problema legato a percentuali di fondi ( 3 o 10 % ) ma di risorse complessive, di un ragionamento sul sistema e di garanzie sula qualità dell’uso delle risorse.
2 Una riforma della salute mentale deve avere una fisionomia tale da permettere di affrontare questioni che rimangono in sospeso e non sono mai state affrontate o risolte quali per esempio:
Le differenze fra modelli regionali
L’incongruenza dentro i trattamenti senza consenso e il tema del rapporto con la magistratura nel caso di persone che compiono reati
La esigibilità dei diritti degli utenti come la possibilità di condividere responsabilmente scelte e programmi di utilizzo di risorse che li riguardano
Il superamento della frantumazione in servizi differenti delle risposte ai bisogni della stessa persona
Rendere conto della efficacia degli interventi
Sostenere e tutelare gli operatori nelle loro competenze
Superamento di un modello gerarchico (eredità manicomiale)
Individuare interventi preventivi necessari e monitorarne l’esito
La lista potrebbe essere lunga e il rischio di ricadere nella elencazione liturgica delle cose che vanno scritte e non fatte è molto alto come, purtroppo, succede in tutte le dichiarazioni dei diritti fatta da qualsiasi soggetto che sia l’OMS, L’Europa o qualsiasi altro organismo o aggregazione.
Credo, in sintesi , che non si possa pensare a un cambiamento se mancano due condizioni fondamentali:
1 Un soggetto competente in grado di studiare e fare sintesi delle difficoltà e delle opportunità proponendo una “rivoluzione “nel paradigma organizzativo e nei valori
2 Modelli organizzativi innovativi che, senza pregiudizi, affrontino i temi che ho su esposto e tutti gli altri che non ho elencato.
Franco Basaglia è stato negli anni 60 e 70 la figura che ha svolto il ruolo di soggetto promotore di una rivoluzione di paradigma. Con lui ci sono state migliaia di persone che hanno creduto a quel cambiamento . Il sospetto è che se si continua a credere a ciò in cui si credeva 50 anni fa senza porsi il problema che non è più lo stesso mondo e che molte delle persone che hanno bisogno di cure sono nate in un epoca in cui i manicomi non c’erano più, non si va da nessuna parte. È necessario sperimentare e ricomporre un soggetto scientifico e culturale che studi accuratamente come si possa realizzare un cambiamento di paradigma. Le commissioni regionali o nazionali che siano, purtroppo, rappresentano la negazione di questo: rappresentano una partecipazione ma quasi mai hanno il mandato di studiare e sperimentare innovazioni organizzative. E di queste e di una riforma della legge c’è davvero un enorme bisogno; ne hanno la necessità gli operatori di qualsiasi profilo, i familiari , le comunità ma soprattutto le persone che hanno bisogno di cure
Gerardo Favaretto
Medico, psichiatra