Gentile Direttore,
quando negli anni ’90 i due Progetti Obiettivo Nazionali hanno cercato di tratteggiare quella che doveva essere la organizzazione della salute mentale, si sono soffermati ampiamente a descrivere i luoghi della cura e della riabilitazione.
E questi luoghi, trasformati nelle unità di offerta sono stato poi ripresi nelle varie normative su autorizzazione ed accreditamento. Alla fine non c’era alcuna vera chiarezza sul personale che era necessario, ma almeno c’era una qualche definizione su quelle che dovevano essere le componenti organizzative.
Con il tempo anche questa apparente certezza ha avuto varie progressive trasformazioni locali dando origine a quelle che potremmo chiamare “nuove” unità di offerta della salute mentale. Di esse non c’è traccia ufficiale nei documenti e quando i vari report, ad esempio SISM, indicano le strutture presenti, non rendono conto di questa trasformazione, che rende i dati presentati molto approssimati e molto poco confrontabili.
Provo a descriverne alcune.
In primo luogo vi sono le “unità future” che rappresentano promesse che rimangono a tempo indefinito solo sui progetti. Sto pensando alle tante strutture di NPI che dovevano essere attuate e si si sono tramandate di edizione in edizione nelle varie programmazioni regionali, senza essere però mai state attuate nè come muri nè come personale.
Vi sono poi le “quasi unità di offerta”, strutture di cui esistono i muri ma non il personale. Qui abbiamo varie tipologie: il personale può mancare del tutto, lasciando la struttura disabitata anche di pazienti, oppure è carente, consentendo, al di là dei grandi progetti e dei vari protocolli, solo qualche attività e solo per qualche frazione di tempo settimanale, talvolta anche utilizzando una nuova categoria di figura professionale dotata di bilocazione, come alcuni santi, e con la capacità di essere contemporaneamente in più luoghi. Sto pensando a reparti di neuropsichiatria in lunga attesa di effettiva attivazione oppure che che si appoggiano per gran parte della giornata a personale dell’età adulta; sto pensando a personale degli SPDC che deve provvedere a distanza per mantenere aperto anche per il CSM, altrimenti senza medico, garantendo pareri telepatici ed urgenze; sto pensando a personale dei CSM che deve garantire a sua volta attività nelle comunità terapeutiche magari per pazienti completamente sconosciuti.
Ci sono poi le unità di offerta “impilate a matrioska”, come i reparti di NPI ricavati rubando spazi dentro i già ristretti SPDC, magari separati da questi solo da una porta che non garantisce contro una condivisione di luoghi, personale e passaggi comuni, e tantomeno dall’avere costituito una specie di cittadella della salute mentale (una volta aveva un altro nome) dove mettere insieme tutta questa tipologia di pazienti, possibilmente isolati rispetto al resto dell’ospedale. Talune realtà più fantasiose aggiungono anche un Centro di Salute Mentale o una Comunità dentro l’area ospedaliera, costruendo una doppia estraneità, quella rispetto al territorio che rimane lontano e con esso tutti gli aspetti sociali, e quella rispetto allo stesso ospedale, che considera comunque la salute mentale un mondo ai margini, da coinvolgere solo quando i pazienti creano problemi di comportamento o per collocare situazioni di cui non si sa altrimenti cosa fare.
Ci sono anche le “unità di offerta aliene”, dove questo termine non deriva dall’antico termine di “alienati”, ma dal fatto che si tratta di reparti di degenza che sono fuori anche fisicamente dall’ospedale generale o lo sono come burocrazia o come cultura locale, rendendo problematica anche la più banale consulenza che magari deve essere inviata al Pronto Soccorso e non richiesta semplicemente al reparto competente. In contraddizione con la L. 180/78 che collocava i ricoveri psichiatrici nell’ospedale generale, questi pazienti rimangono un corpo estraneo alla sua struttura ed al suo funzionamento, come se non vi fosse un obbligo giuridico ed etico alla massima assistenza per questi pazienti, per di più a volte ricoverati senza la loro disponibilità e senza poter scegliere dove ricoverarsi. Alla fine ci si dimentica anche che la loro aspettativa di vita per patologie organiche è di almeno 15 anni inferiore alla media della popolazione. Spesso le bizantine distinzioni fra ASL ed Aziende Ospedaliere creano ulteriori varietà opposte, come SPDC di esclusiva proprietà ospedaliera, che pur senza mai integrarsi nella realtà ospedaliera riescono ad essere estranei anche a tutta la psichiatria territoriale.
E cosa dire delle unità di offerta inattivate “temporaneamente” per carenze di personale o ristrutturazioni infinite, e che di fatto semplicemente non ci sono, anche senza una chiusura formale che modifichi la programmazione regionale ed i dati nazionali.
O quando il CSM diventa “unità di offerta bonsai”, gli “ambulatori di salute mentale” aperti qualche ora in qualche giorno con qualche operatore, ma mantengono comunque alti i numeri delle statistiche delle strutture territoriali?
L’elenco potrebbe continuare, creandoci il dubbio se veramente, in assenza di criteri omogenei con cui chiarire di cosa si parla, abbiano un qualche senso i numeri, peraltro di chiaro impoverimento, che ci riporta il SISM.
È veramente la fantasia al potere. Peccato che a rimetterci siano i pazienti
Andrea Angelozzi