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Casa di cura convenzionata: privato sì, ma con rapporto di servizio pubblico se accreditata

di Fernanda Fraioli

21 OTT -

Gentile direttore,
il giudice contabile lo aveva già stabilito in primo grado, ora lo ha ribadito in appello: sussiste il rapporto di servizio in capo alla Casa di cura convenzionata per pagamenti non dovuti nell’ambito del rapporto intercorrente con la struttura pubblica in quanto, sulla base delle disposizioni vigenti, è apparso evidente come i privati “accreditati” presso il SSR (diversamente da quelli “autorizzati”) fossero veri e propri uffici dell’amministrazione (incaricati di pubblico servizio), come desumibile dall’art. 8-bis del d.lgs. 502 del 1992.

Più precisamente, detti operatori non sarebbero dei semplici fornitori di prestazioni, in un ambito puramente contrattualistico, bensì inseriti in un sistema complesso pubblico-privato, qualificato dal raggiungimento di fini di interesse generale e di particolare rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute, per cui su tali soggetti graverebbero obblighi di partecipazione e di cooperazione nella definizione della stessa pianificazione e programmazione del volume delle attività.

Tanto è stato ritenuto bastevole per il radicamento della giurisdizione erariale.

E, con specifico riferimento all’argomento che ha dato origine al contenzioso davanti alle Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti – ovvero la liquidazione di somme a titolo di corrispettivi non spettanti, determinata dalla condotta antigiuridica ascritta alla Casa di cura – costituisce violazione di un obbligo di servizio il superamento del c.d tetto di spesa qualora non sia stato previamente autorizzato e se il corrispettivo per le attività rese sia stato ottenuto, come nel caso di specie, al di fuori delle ordinarie procedure.

Sotto l’aspetto puramente fattuale, è appena il caso di ricordare che il lamentato pregiudizio erariale pari ad € 1.113.600,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria che ha dato origine alla sentenza che si commenta, è stato causato all’Azienda Sanitaria Provinciale da pagamenti non dovuti nell’ambito di un rapporto di convenzionamento intercorrente con la struttura pubblica.

Detti compensi erano stati indebitamente ottenuti e liquidati a seguito di una procedura esecutiva, con assegnazione delle somme da parte del giudice civile, attivata da un soggetto terzo in qualità di cessionario dei crediti, che la medesima Casa di cura aveva dichiarato senz’altro di vantare, sebbene l’Ente li avesse in parte contestati e in parte disconosciuti.

I giudici contabili hanno stimato che debba “ritenersi violato qualora avvengano sovraprestazioni non previamente autorizzate e se ne ottenga il pagamento al di fuori delle ordinarie procedure amministrative o contenziose (in modo da consentire all’amministrazione di verificarne la debenza e di inserire nella propria programmazione le maggiori pretese della struttura accreditata), specie con l’utilizzo doloso di strumenti che determinano un pagamento non programmato ed estemporaneo”, condannando la Casa di cura a rifondere l’Azienda sanitaria per l’intero danno azionato.

A fronte della lamentata carenza di legittimazione passiva perché ritenuta una controversia tra privati, come sostenuto dalla Casa di cura nelle proprie memorie difensive a cui, quindi, in qualità di soggetto incaricato non spetterebbe di esercitare alcun potere discrezionale, decisionale o valutativo delle esigenze della collettività, ma solo di fornire le attività domandate dai cittadini ottenendone la remunerazione dalla ASP entro i limiti fissati in convenzione, la Corte dei conti ha ribadito come sia pacifico in giurisprudenza il riconoscimento di un vincolo di carattere pubblico con l’Azienda Sanitaria discendente dall’accreditamento ex art. 8 quater del d.lgs.502/1992.

La natura del rapporto è stata riconosciuta come figura a cavallo tra concessione e abilitazione tecnica idoneativa, nell’ambito di un servizio essenziale, atta ad imporre al privato accreditato precisi doveri di leale collaborazione con l’ente, amplificando l’ordinario dovere di diligenza e correttezza esigibile nei comuni rapporti obbligatori.

Il sistema dell’accreditamento, dunque, non è così avulso al preminente esercizio del potere autoritativo e conformativo dell’Amministrazione – come sostenuto dalla Casa di cura – atteso che si configura come di tipo concessorio, assolvendo alla funzione di ricondurre in un quadro di certezza il volume e la tipologia dell’attività del soggetto accreditato, il cui concorso con le strutture pubbliche nelle prestazioni di assistenza soggiacerebbe alla potestà di verifica sia tecnica che finanziaria della Regione e a criteri di sostenibilità, nei limiti di spesa annuali.

Per questo il giudice contabile ha affermato la sussistenza di una relazione funzionale tra la società e l’ente regionale, nel cui apparato la prima, in forza dell’accreditamento ex art. 8-quater del d. lgs. 502 del 1992, risulta inserita, per la realizzazione delle esigenze pubblicistiche, per cui ha acquisito uno specifico obbligo, in forza di formale investitura.

Su tale collegamento strumentale, dal quale discende per il privato il ruolo di agente dell’amministrazione, si fonda il radicamento della giurisdizione contabile, nell’evenienza in cui il soggetto con la propria attività contraria alla legge, e quindi in violazione dei doveri derivanti dal convenzionamento con la Regione, abbia prodotto un danno all’Erario, senza che la natura provvedimentale o negoziale o, anche solo di mero fatto, della fonte da cui è originato il rapporto medesimo possa avere qualche incidenza.

Ponendosi su una scia giurisprudenziale interna assolutamente consolidata, anche questo giudice d’appello ha ritenuto che le strutture accreditate contribuiscano con le proprie funzioni di pertinenza pubblica all’attuazione delle finalità di assistenza sanitaria (artt. 43 della l. n. 833/1978 e 8 del d.lgs. n. 502/1992) e, d’altro canto, l’inerenza all’interesse della collettività giustifica sia l’esborso di danaro, sotto forma di assunzione a carico del bilancio regionale delle prestazioni assicurate, attraverso il sistema della remunerazione tariffaria, sia l’esistenza di regole tecniche e operative che definiscono i limiti entro i quali l’attività resa può essere validata.

Ma non solo.

Anche la stessa Corte di cassazione, con riferimento alla sussistenza di un rapporto di servizio in capo all’organismo privato, ha ritenuto che ricorra la competenza del giudice contabile per i fatti dannosi frutto di una mala gestio del vincolo concessorio intercorrente con l’ente pubblico che, in ragione del riconoscimento della qualità di soggetto accreditato, ha determinato l’inserimento del medesimo, in modo continuativo e sistematico, nell’organizzazione dell’Amministrazione.

Tanto proprio in considerazione degli effetti traslativi di funzioni e di vincoli pubblicistici che si verifica attraverso il meccanismo dell’accreditamento, soprattutto per quanto concerne l’osservanza della programmazione della spesa sanitaria e degli obiettivi del suo contenimento, tra cui indubbiamente rientra la non remunerabilità di servizi “extra-budget” non verificati, come nel caso in esame.

Da cui, quindi, il dovere di rispettare le convenzioni – nello specifico dell’ipotesi in oggetto, la parte riferita alla quantità e qualità delle prestazioni stabilite e il connesso limite di spesa – dove non riverbera i propri effetti sul piano di risarcibilità (e connessa responsabilità) civilistico, ma assume rilievo ai fini della tenuta complessiva del sistema e della concreta attuazione del diritto alla salute.

Se poi, la spettanza di compensi per attività erogate oltre la soglia fissata possa dare luogo a controversie in sede giudiziaria civile o amministrativa, è circostanza che si pone come assolutamente ininfluente sul processo contabile.

Motivo per cui sono state ritenute prive di pregio le difese della Casa di cura circa l’origine del danno lamentato che, a suo avviso, si sarebbe concretizzato quando il locale Tribunale ha emesso la propria ordinanza di assegnazione delle somme al cessionario, sottolineando pertanto come non potrebbe sussistere una responsabilità erariale, poiché il fatto si sarebbe determinato a seguito delle statuizioni del giudice ed in più che gli addebiti dovrebbero essere ascritti alla stessa Azienda Sanitaria che non avrebbe posto in essere alcuna attività per impugnare il predetto provvedimento.

È, invece, il superamento del c.d. tetto di spesa qualora non sia stato previamente autorizzato e se il corrispettivo per le attività rese sia stato ottenuto, come nel caso in commento, al di fuori delle ordinarie procedure ( non consentendo …all’amministrazione di verificarne la debenza e di inserire nella propria programmazione le maggiori pretese della struttura accreditata), specie con l’utilizzo doloso di strumenti che determinano un pagamento non programmato ed estemporaneo, che costituisce violazione di un obbligo di servizio perseguibile in sede contabile.

A rilevare, infatti, in tale circostanza è l’inosservanza delle regole stabilite in regime di accreditamento, alla cui conformità i concessionari sono tenuti ex lege, non già la natura dei soggetti degli autori dell’illecito contestato, formalmente estranei all’amministrazione danneggiata.

Da lungo tempo la Cassazione ha stabilito che, se nel periodo di vigenza del sistema introdotto con la legge 23 dicembre 1978, n. 833, il principio di libera scelta della prestazione sanitaria da parte dell'assistito non era assoluto, con il disposto dell'art. 2, co. 7, d.P.R. 14 gennaio 1997, n. 37 ha, invece, trovato il suo punto di equilibrio, rispondendo all’esigenza di contemperare gli obiettivi di liberalizzazione con la necessità di blindare la spesa pubblica.

Si è, quindi, ritenuto che la qualità di soggetto accreditato non costituisca vincolo per le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale a corrispondere la remunerazione delle prestazioni erogate, al di fuori – ma anche oltre - degli appositi rapporti di cui al D.L.vo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, nell'ambito del livello di spesa annualmente definito.

Il comportamento così tenuto dalla Casa di cura come riferibile all’esercizio delle funzioni per le quali possa dirsi compartecipe delle attività del SSN e delle sue finalità, deve essere accompagnato da un elemento c.d. oggettivo (l’evento danno ed il nesso causale tra questo e la condotta tenuta), e da uno c.d. soggettivo (il dolo o la colpa grave) che, nel caso in commento, sono stati ritenuti entrambi sussistenti.

Con particolare riferimento a quest’ultimo è stato rilevato il dolo in capo alla Casa di cura, a fronte di comportamenti caratterizzati da piena consapevolezza e volontà, e, quindi, rilevata l’adesione psichica ad una condotta contraria alle norme ed alle conseguenze lesive per l’Ente sanitario, atteso che era ben edotta dell’esistenza del tetto di spesa nel contratto, dal fatto che l’obiezione di non debenza dei pagamenti della ASP fosse da essa conosciuta e, infine, dal frangente che la società avesse dichiarato in sede di cessione che le somme erano dovute, che nessuna eccezione potesse essere opposta dal debitore e che quest’ultimo non avesse elevato contestazioni sull’esigibilità dei crediti.

È, infatti, principio fondamentale dell’ordinamento contabile che l’utilizzo di risorse pubbliche debba essere attuato nel rispetto delle prescritte procedure di spesa, essendo precluso in generale – a maggior ragione se si tratta di un soggetto esterno convenzionato per l’espletamento di servizi a titolo oneroso – qualsiasi diritto a un più elevato compenso, laddove il contraente, di propria iniziativa e ignorando i limiti imposti dall’Amministrazione, abbia reso prestazioni supplementari rispetto a quelle programmate e autorizzate.

Senza contare che dalle attività extra-budget non avrebbe potuto derivare un diritto all’indennizzo per l’illegittimo arricchimento da parte dell’Ente pubblico, ai sensi dell’art. 2041 c.c.

Come, quindi ritenuto dal giudice contabile, alla luce dell’assetto normativo vigente (art. 8-quinques co. 1 e 2, lett. d, del d.lgs. n. 502/1992), per la remunerazione delle prestazioni eccedenti, è sempre necessario che la Regione abbia stabilito se finanziarle o meno, deliberando i relativi criteri, e che tale evenienza – entro il livello di spesa massimo fissato – sia altresì contemplato in convenzione.

Nel caso di richieste di pagamenti addizionali, è poi imprescindibile, che l’amministrazione riscontri se i servizi ulteriori siano stati effettivamente forniti, affinché la loro compensazione sia conforme alla legge.

Infine, da un’angolazione squisitamente giuridica, non va sottovalutato un altro aspetto che ha caratterizzato il caso in esame: la mancata opposizione all’esecuzione da parte dell’Azienda sanitaria.

Perché tale istituto non si pone come un fattore sopravvenuto in grado di elidere il nesso teleologico tra l’illegittima condotta della struttura accreditata, attuata in violazione del rapporto di servizio, e il fatto pregiudizievole, reso possibile dalla rifiutata cessione del credito, di cui l’assegnazione delle somme al soggetto terzo, nell’ambito della procedura esecutiva già pendente, ha costituito uno sviluppo tutt’altro che improbabile e imprevedibile, contrariamente a quanto sostenuto dalla Casa di cura.

Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 41 c.p. – che disciplina il rapporto di causalità tra comportamento ed evento, in caso di concorso di cause (ovviamente qualificate, ovvero capaci di assumere su di sé l’intera valenza dell’imputazione eziologica), ritenuto pacificamente applicabile ai giudizi erariali – prevede che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.

E certamente tale non è l’assenza di reazione da parte dell’Azienda rispetto al provvedimento assunto nell’ambito del pignoramento mobiliare in corso.

Come neppure lo è la sua attivazione visto che una volta verificatosi il pregiudizio, le successive iniziative della Pubblica Amministrazione, tra cui quelle genericamente previste dall’art. 52, co. 6, c.g.c., con l’espressione “tutte le iniziative necessarie” per evitarne l’aggravamento, non hanno alcuna incidenza sulla sua determinazione.

Infatti, il venire meno del danno a seguito di rifusione da parte del danneggiante citato in giudizio, ovvero attraverso la retrocessione delle somme da parte del terzo cessionario, al quale sono pervenute in sede esecutiva (come detto, pende contenzioso civile, intentato dalla S.r.l. cessionaria nei confronti dell’ASP, per inadempimento contrattuale o arricchimento senza causa) dà luogo a una questione esterna al fatto generatore di responsabilità a carico della Casa di cura, che potrebbe al più trovare regolazione in sede di esecuzione della sentenza di condanna, secondo le ordinarie regole essendo previsto dalla normativa che, a fronte di eventuali futuri recuperi, possono essere adottate dall’Ente tutte le misure necessarie affinché non si realizzi l’acquisizione a suo favore di una duplice somma a soddisfacimento dello stesso debito che costituirebbe un illecito arricchimento, per l’avvenuta duplicazione del rimborso, non consentita dall’ordinamento.

E poi anche perché, in ogni caso, pure sotto questo secondo aspetto, varrebbe quanto statuito dal suddetto art. 41 c.p. in quanto concausa sopravvenuta incapace, però di valenza di imputazione eziologica.

Avendo rilevato tale conteso nel caso in commento, i giudici contabili hanno verificato che la Casa di cura con la propria condotta, sostanziatasi nel trasferimento di crediti incedibili, contravvenendo alla convenzione in essere con l’Azienda sanitaria e disinteressandosi del diniego motivato da questa espresso, ha posto in essere un antecedente causale indispensabile e assorbente perché il terzo cessionario potesse inserirsi, ai sensi dell’art. 499 c.p.c., nella procedura di esecuzione instaurata da altro creditore.

Per concludere, quindi a fronte di quanto sostenuto dalla Casa di cura in merito all’assenza di dolo e di comportamenti antigiuridici, in quanto essa avrebbe solo ceduto i crediti, i giudici contabili hanno rilevato la sussistenza di dolo (o secondo il giudice di primo grado quantomeno la colpa con previsione) nella sua azione, per avere coscientemente ceduto crediti derivanti da prestazioni non autorizzate e in violazione dei limiti di spesa fissati nel contratto o comunque non liquidi e non esigibili, trascurato la contestazione della ASP di non spettanza delle somme, e infine, dichiarato in sede di cessione che le somme erano dovute, che nessuna eccezione potesse essere opposta dal debitore e che quest’ultimo non avesse mosso obiezioni sull’esigibilità delle partite cedute.

Fernanda Fraioli

Presidente di Sezione della Corte dei Conti
Procuratore regionale per il Piemonte



21 ottobre 2024
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