Gentile Direttore,
l’articolo pubblicato su Quotidiano Sanità dal titolo “Cronicità. Con l’integrazione dei servizi di assistenza a livello istituzionale e professionale migliora la qualità e si risparmia fino al 4% della spesa sanitaria globale. Il rapporto Ocse”, per chi, come noi assistenti sociali vive e osserva il sistema di Welfare presente nei diversi contesti territoriali, sollecita ulteriori considerazioni.
L’articolo, nel commentare il rapporto Ocse su 13 casi studio in altrettanti Paesi europei per migliorare l’assistenza alle persone con patologie croniche, evidenzia una cosa per noi lapalissiana: l’integrazione dei servizi di assistenza, sia a livello istituzionale che professionale è vincente, sia in termini di efficacia che di efficienza per le persone, ma anche in termini economici. Vengono confermate, per chi ha ancora dei dubbi, la valutazione e la previsione presenti negli ultimi documenti di programmazione nazionale - pensiamo al PNRR Missione 5 e Missione 6, al Piano triennale per la non autosufficienza e al DM 77/21 - nei quali l’integrazione tra i sistemi territoriale e ospedaliero, sociale e sanitario è indicata come “la soluzione”.
Superare, quindi, la frammentazione dei percorsi di assistenza per chi vive una situazione di fragilità permanente riuscendo a far in modo che il sistema sanitario e quello sociale si “parlino” e co-costruiscano i progetti per affrontare i bisogni di tutti coloro che hanno bisogni di salute complessi. Quell’integrazione sociosanitaria, insomma, che inseguiamo come una chimera da decenni.
L’Ocse ci pone di fronte a evidenze e a indicazioni che non possono essere ignorate, soprattutto dopo che la pandemia ha confermato e ampliato i punti deboli e le aree su cui agire e da attivare. L’elenco dei nodi da affrontare è piuttosto chiaro: percorsi ospedale-territorio, assistenza territoriale, prossimità dei luoghi di cura e presa in carico, punti unici di accesso e ricomposizione degli interventi sociali e sanitari rivolti alla persona, valutazione della dimensione sociale nella vita di chi è in percorsi di cura per interventi tempestivi, quando necessario.
Nonostante ciò, la percezione di tutti noi addetti ai lavori, è di una diffusa fatica nel dare concretezza ai processi di integrazione. Soprattutto pare ci sia una resistenza a riconoscere anche nella gestione della cronicità, l’importanza dei determinanti sociali della salute; una resistenza che può essere organizzativa, culturale o (probabilmente) entrambe.
Quello che si osserva sono sistemi territoriali di Welfare sociosanitario che pensano e gestiscono la cronicità con un approccio ancora quasi esclusivamente medico-sanitario. La stratificazione della popolazione con patologie croniche, laddove effettuata, si basa solamente sulle caratteristiche cliniche e sui consumi delle prestazioni sanitarie. Ci si dimentica, evidentemente, la dimensione sociale della vita delle persone, l’attenzione al contesto, alla rete sociale nel quale si svolge la loro esistenza e nel quale costruire i percorsi di accompagnamento e assistenza, riconoscendo gli elementi di fragilità e vulnerabilità che condizionano l’insieme della cura.
Come assistenti sociali continuiamo a ribadire che va posta al centro dell’attenzione la persona, non solo la sua patologia. Al centro dei percorsi complessi ci sono dei soggetti non dei numeri, ci sono delle biografie, delle famiglie oltre a reti di affetti e relazioni. La domanda che riproponiamo è: “come si garantisce la personalizzazione nella presa in carico della persona in situazione di cronicità e fragile?”. Per noi lo si fa solamente se si accetta di cambiare paradigma, spostando il punto di osservazione: dal curare al prendersi cura, dalla centralità del sistema dell’offerta alla centralità della domanda e dall’approccio settoriale a un sistema di servizi integrato.
Se si è scettici, se il commento è “va bene, ma è una vita che diciamo le stesse cose”, allora il problema è non voler veramente accettare un cambiamento culturale necessario e dimostrato dai dati, ultimi quelli di OCSE. Non è una chimera, ma solo volontà di passare veramente a valutazioni che siano multidimensionali, con le professioni che servono e non quelle che abbiamo in organico oggi.
Investire su progetti personalizzati e piani individualizzati sostenibili anche con la composizione di budget di progetto e di cura, per ricomporre i diversi interventi sanitari con quelli assistenziali (Assistenza domiciliare, servizi di trasporto, socializzazione, supporto reazionale) e l’azione dei caregiver familiari verso i quali il legislatore mostra di porre attenzione (vedi l’istituzione del Fondo dedicato).
In questo quadro, quindi, l’attuazione del DM 77/21 richiede ora uno scatto verso un reale e coraggioso cambio di passo: definite le strutture l’impegno di tutti dovrà essere rivolto alla costruzione dei contenuti, della cultura delle nuove organizzazioni e degli strumenti per tessere quella rete integrata nel quale il cittadino possa trovare facilità di accesso, unitarietà delle risposte e integrazione dei percorsi e degli interventi sanitari e sociali.
La fase è delicata e merita un’azione di monitoraggio strutturata e centralizzata alla quale, come Ordine e professione, siamo pronti a partecipare avendo conoscenza dei bisogni della popolazione e del funzionamento dei sistemi di welfare territoriale. Già oggi rileviamo, ad esempio, che la strutturazione delle Case di Comunità è molto differenziato da regione a regione e all’interno della stessa Regione, i modelli organizzativi appaiono essere, come le equipe multiprofessionali, disegnati a composizione eccessivamente variabile per mancanza di visione unitaria e di personale.
Quindi, in conclusione, quel dubbio espresso in precedenza, ovvero se sia questione culturale o organizzativa, dal nostro punto di vista sembra più legato a sistemi di gestione di potere e di posizioni. Tutti noi, e speriamo anche i decisori, non possiamo non considerare i cambiamenti sociali che ci aspettano, che hanno mutato la struttura e la funzione delle famiglie, con condizioni economiche sempre più critiche e che, spesso, si trovano a dover scegliere tra reddito o care. Tutti noi abbiamo il dovere, come parte della Repubblica, a fare in modo che ognuno possa realmente aver accesso alle cure, alla dignità e alla salute.
Mirella Silvani
Segretario nazionale del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali (Cnoas) e delegata alla Salute