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Aggressioni ai sanitari. Siamo sicuri che gli interventi di de-escalation bastino?

di Andrea Angelozzi

13 MAR -

Gentile Direttore,
la questione delle aggressioni agli operatori è un problema estremamente grave, che merita la massima attenzione e risposte adeguate. A fronte di iniziative che prevedono campagne di sensibilizzazione su stile informativo/pubblicitario, mi viene in mente che, ancora nel quarto secolo Avanti Cristo, perfino Antifonte Sofista, che aveva aperto un ambulatorio di psicoterapia a Corinto, dove si vantava di poter modificare con la persuasione retorica qualunque atteggiamento e comportamento, segnalava di non poter prescindere dal conoscere le cause del problema.

Analisi in questo senso sulla questione delle aggressioni non ne ho trovate, a parte l’affermazione molto generica che si tratta di un problema culturale. Questo è un elemento probabilmente importante, relativamente alla illusoria visione di immortalità e cura universale che certa ideologia auto-incensante in ambito medico e farmacologico ha suggerito, di fronte alla quale morte e malattia diventano una colpa degli operatori. Come è importante il deterioramento nel senso sociale, per cui si pretende tutto e subito, vantando diritti e dimenticando doveri.

Ma forse, per tutta una serie di altri aspetti, varrebbe la pena di notare che l’incremento delle aggressioni negli ultimi anni mostra una curiosa correlazione con il progressivo declino del SSN.

Sto pensando ai problemi in cui si muovono i MMG con le lunghe attese e le tante difficoltà a erogare quanto necessita ai loro assistiti, ottenendo malessere nei propri confronti ed un riversarsi dei pazienti a Pronto Soccorso impoveriti nel personale, spesso appaltati a operatori non sempre preparati, dove devono attendere ore per essere valutati.

Sto pensando a visite specialistiche o esami spesso rinviati, talvolta proposti a decine di kilometri da dove uno abita (raccontando che è ottimizzazione), talvolta dati a mesi di distanza, talvolta nemmeno dati. Penso a reparti con poco personale e tanti ricoverati, che faticano non solo a stabilire con il paziente quel rapporto di collaborazione e fiducia che è essenziale per qualunque cura, in qualunque disciplina, ma anche a dare semplicemente le risposte che uno chiede in quel momento di crisi.

Sto pensando - in psichiatria - alla difficoltà a seguire adeguatamente i pazienti sul territorio, per poi vederli arrivare in condizioni ormai gravemente acute e poco gestibili al PS o in reparto. Ed anche negli reparti SPDC c’è un problema di quantità di personale e di possibilità di seguire adeguatamente i ricoverati. Esquirol nel 1848 ci raccontava che gli bastavano tre goccette di acqua fredda sulla nuca per bloccare gli agitati aggressivi, ma ci dice anche che ogni paziente aveva il suo operatore dedicato per tutte le 24 ore della giornata..

Nessuno vuole nemmeno lontanamente giustificare atti che sono ingiustificabili, ma bisognerebbe provare ad uscire da una logica che attribuisce certi comportamenti solo a come uno è fatto, anzi, a come uno è diventato e non si capisce perché, per passare a una logica dove le situazioni che uno vive disegnano gran parte delle sue scelte e delle sue reazioni, e più che sulle persone occorre allora agire sulle situazioni.

Di fronte a questa realtà dei servizi che spesso ha le caratteristiche necessarie per esasperare anche i santi, vengono proposte campagne di sensibilizzazione con manifesti in stile pubblicitario, operatori formati e che formino a tecniche di de-escalation e, giusto per non farsi mancare nulla, lo sdoganamento della contenzione per chi si fa prendere dalla rabbia - parlo del Veneto - affidata ai suoi esperti, gli psichiatri, con il compito, prima di sedare, e poi di domandare quello che è successo.

La comprovata mancata efficacia delle tecniche di de-escalation nel diminuire gli episodi di aggressività rischia di riproporsi nelle campagne pubblicitarie a manifesti, come quella della ULSS 6 Euganea, di cui ci ha dato notizia Quotidiano Sanità.

Fin dagli studi sulla persuasione di Hovland e della Scuola di Yale intorno al 1940 è nota la inefficacia di strategie di questo tipo per modificare atteggiamenti e comportamenti, come peraltro confermato dal fallimento di tutta una serie di campagne pubblicitarie di prevenzione in ambito sanitario.

Molto recentemente - giusto come esempio in una letteratura molto vasta in materia - è stata pubblicata una metanalisi dal titolo emblematico “A Popular Approach, but Do They Work? A Systematic Review of Social Marketing Campaigns to Prevent Sexual Violence on College Campuses” che ha evidenziato come questa tipologia di iniziative porti di sicuro ad una aumentata conoscenza del problema ma con altrettanta certezza a nessuna conseguenza sui comportamenti effettivi delle persone.

Manifesti e tecniche di de-escalation sono certo utili per dare agli operatori la sensazione che qualcosa si stia facendo e forse limitarne il burn out; ma per affrontare in maniera un po’ più efficace il problema in ambito sanitario occorrerebbero ben altri provvedimenti, che agiscano sulle risorse, la organizzazione dei servizi e delle risposte al cittadino.

Ed il fatto che questi richiedano aspetti radicali di non facile attuazione non penso permetta comunque di vantar come proposte efficaci delle iniziative “pubblicitarie” che alla fine rischiano di migliorare, nel pubblico e negli operatori, solo la immagine degli amministratori che le propongono.

Andrea Angelozzi

Psichiatra



13 marzo 2023
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