Gentile Direttore,
mentre ci si sofferma ripetutamente e giustamente sulla carenza di fondi per la salute mentale, una minore attenzione viene data invece a come sono spesi quei pochi a disposizione. Vi è infatti un problema relativo al modello di salute mentale che si intende disegnare ed alla coerenza dei provvedimenti con i dati disponibili.
Per cercare di chiarire questi punti prenderò come esempio un recente provvedimento della Regione Veneto che ridefinisce la organizzazione dei Centri Diurni (DGR 94 CR/ 2022), sapendo che certamente il discorso può allargarsi ad altri provvedimenti e non solo alla Regione Veneto.
Il documento preso in esame aumenta i posti disponibili nei Centri Diurni, passando dagli attuali 1.397 (594 privati e 803 pubblici) a 1.646 con un incremento di 249 posti.
Il primo problema che si pone per questo lodevole sforzo di aumentare l’offerta è la coerenza di questa programmazione con i dati disponibili, e riguarda due aspetti.
Il provvedimento sembra non considerare infatti quanto emerge dalla analisi delle prestazioni presenti nel Servizio Informativo Salute Mentale (SISM), che mostra come in Veneto dal 2016 l’utilizzo dei posti già esistenti non sia mai andato oltre il 60%. Si incrementa così una disponibilità per qualcosa che di fatto era utilizzata solo parzialmente. E’ da segnalare che, anche con questo utilizzo parziale, il Veneto ricorre ai Centri Diurni più della media nazionale, togliendo il dubbio che con questo incremento di posti si sia voluto in qualche maniera sollecitare una prassi dopo utilizzata.
Vale la pena di segnalare che da una valutazione fatta a luglio 2022, solo il 24% dei CSM è aperto per 6 gg la settimana e solo il 19% con l’orario indicato dai Progetti Obiettivi Nazionali e Regionali, e che la spesa per abitante per le attività territoriali nel 2020 erano inferiori del 33% rispetto alla media nazionale.
Il provvedimento definisce anche dei modesti aggiustamenti di personale per i CD, che passa da 0.26 operatore/utente a 0,28. Questo da solo dovrebbe improvvisamente assicurare una serie di attività riabilitative EBM attualmente molto poco utilizzate, da dedicare prevalentemente ad 1/3 degli utenti che il documento stima possano trarre vantaggio da interventi “intensivi”.
Anche qui si pone una questione di modello. Tutta la semiresidenzialità viene considerata come un problema sanitario da gestire nei Centri Diurni dei DSM, mescolando quindi bisogni prevalentemente sociali a bisogni prevalentemente riabilitativi senza ipotizzare soluzioni che potrebbero avere meglio risposta in altre strutture non necessariamente psichiatriche e a maggiore contatto con la comunità locale.
La ovvia conclusione è una dilatazione dei tempi di permanenza, ipotizzando che il trattamento (compresi quelli EBM) possano durare anche 10 anni, in aperta sfida a qualunque letteratura scientifica in merito. Il problema del modello diventa così anche un problema di coerenza con la letteratura scientifica e con i problemi della formazione, dove forse sarebbe meglio investire su una moltiplicazione delle competenze degli operatori e non dei posti dei pazienti.
Sempre all’interno della questione del modello perseguito, va segnalato che il provvedimento indica anche che 1/3 degli interventi intensivi vadano riservati agli esordi psicotici, mirando quindi ad offrire interventi riabilitativi per questi pazienti a fronte di una loro gestione terapeutica che i dati Regionali mostrano semplicemente di una drammatica povertà.
E’, interessante anche l’analisi del finanziamento, che rappresenta sempre un punto dolente dei provvedimenti sulla salute mentale e che trova il consueto mantra che “la presente deliberazione non comporta ulteriori spese a carico del bilancio regionale”, dovendo far quadrare questo con un maggiore importo di spesa previsto di € 9.300.000.
In assenza di fondi aggiuntivi il documento segnala invece che tale spesa sarà finanziata con risparmi da “riorganizzazione” del modello precedente e dal riferimento al fondo indistinto attribuito alle ASL. La prima ipotesi sorprende dal punto di vista matematico perché mira ad incrementare una spesa attraverso risparmi sulla spesa stessa, suggerendo un affascinante meccanismo per cui uno può cercare di sollevarsi prendendosi per i capelli; il secondo, in assenza di un adeguamento ad hoc del fondo indistinto, fa temere che le ASL finanzino questo costo maggiore con altre voci, che non certo attingono ad altri servizi, ma alla fine alla salute mentale stessa.
E dal momento che è difficile comprimere la spesa ospedaliera (che nel Veneto è in parte considerevole spesa per le Case di Cura private, al di fuori della gestione dei DSM) e quella residenziale (che era stata fissata in maniera molto rigida da una DGR del 2018), viene da pensare che questo possa avvenire solo con una ulteriore contrazione del territorio.
Sempre all’interno del modello che si intende perseguire, vale la pena ricordare i tetti della spesa del personale, che imporranno l’affidamento dei nuovi posti ai privati, portandoli quindi ad oltre il 50% della gestione della spesa per la salute mentale nel Veneto.
Credo che questo esempio, fra i tanti che certo possono essere trovati, sottolinei come non basta chiedere risorse per la salute mentale, ma occorre anche avere chiarezza sui modelli su cui si vuole investire e coerenza con i dati e la letteratura disponibili. E’ vero che senza risorse non si fa nulla, ma maggiori risorse non garantiscono nulla su come verranno spese e sulla loro possibilità di costruire quella qualità nella salute mentale che è un diritto dei cittadini.
Un problema, fra l’altro, che verrebbe ulteriormente acuito dalla autonomia differenziata delle Regioni
Andrea Angelozzi
Psichiatra