Gentile Direttore,
“La metà degli accessi riguarda codici verdi e bianche, che potrebbero essere curati da medici di famiglia e guardie mediche” riportava il quotidiano Il Post alcuni giorni fa. Abbiamo letto varie analisi su questo fenomeno, centrate sulla disorganizzazione della medicina di territorio e sulle carenze nelle assunzioni nei reparti di emergenza. Da bioeticista, allargo il tiro, forse rendendo più semplice (chiara), ma meno facile (cioè meno fattibile, perché ne mostra la complessità) la risposta al problema. Punto il dito su un’inversione sociale della cura della salute: quella epocale dalla medicina alla tecnologia.
Finora abbiamo pensato una sanità basata sulla medicina, cioè sul ragionamento. Non per nulla il termine “medico” viene dal latino “medeo” che significa “io misuro”. Il membro (l’impiegato) della società occidentale (il paziente-tipo) oggi non vuole più un ragionamento, ma vuole la tecnica. Cioè è stato abituato a pensare che ogni male abbia in una pillola la sua soluzione e che il medico che non la propina e non la propina subito sbaglia. Illuso dalla tecnologia digitale, e circuìto dal concetto che “se hai un diritto hai anche una soluzione”.
È il disegno della società tecnologica tratteggiato dai maggiori filosofi del secolo scorso, da Heidegger a Anders, divenuto realtà: non ci interessa il rapporto di cura, ci interessa ricevere la tecnologia, fine (nel senso di scopo ma anche di azzeramento) di ogni rapporto. Perciò, se ho un malessere blando, potrei curarlo da me seguendo con pazienza le indicazioni del medico; ma se la salute è un diritto, quando ho un malessere questo diritto è insidiato, e allora devo andare alla fonte della tecnologia (l’ospedale) per avere sanato immediatamente, improrogabilmente, meccanicamente questo diritto infranto. Insomma, vado in ospedale non perché mi serve ma perché è mio diritto.
E se poi facendo così per una sbucciatura o per una febbre intaso il diritto dei malati-malati di essere curati con attenzione, il problema “non mi riguarda”. È un concetto generale, che non riguarda chi sta realmente male, ma chi ha disimparato a fare i conti col malessere; ed è la maggioranza di noi. È diventata questa una società delle solitudini, in cui l’unico modo di cautelarsi è farsi valere, a costo di farsi valere quando non serve. Mi riferisco ai codici bianchi in sovrannumero, non certo ai malati gravi che da questo sistema trovano solo svantaggio.
A questo si aggiunge un secondo fenomeno che è prettamente pediatrico: il senso di colpa dei genitori. È quel fenomeno per cui il genitore assente cerca di sentirsi presente con “paghette”, regali o altro (tra cui corse al PS). Genitori assenti, che durante la settimana si scordano letteralmente dei figli (è la generazione che reclama i seggiolini intelligenti per non scordarsi i figli in auto) o sono portati dall’affanno del lavoro a scordarsene, vedendoli di sfuggita la sera, epigoni o schiavi della “società della prestazione” tratteggiata da Marcuse (“L’uomo ad una dimensione”), in cui occorre sempre correre e rispondere con prestazioni alla gara per prevalere e sopravvivere. Il senso di colpa si fa sentire nel momento del malessere: “non ci sono stato per tutta la settimana, ma ora che hai due linee di febbre di darò il massimo” e fila in PS per dare una sostanza alla funzione genitoriale o per fare una cosa in più dell’altro genitore o dei nonni che avevano in carico il figlio. Non voglio qui criticare i genitori: critico lo schema sociale che li impoverisce culturalmente e responsabilmente.
In poche parole, la cittadinanza è disabituata a gestire le fasi critiche della vita. Tutto deve passare attraverso un’alienazione tecnicistica di cui il medico e l’infermiere sono i dispensatori.
Di questo ho parlato in un recente saggio sulla rivista di bioetica Bioethics Update: “Nei paesi industrializzati, la mentalità comune ruota attorno alle prestazioni personali. Le persone identificano il loro valore con la loro prestazione, di conseguenza identificano il loro dovere con il loro ruolo. Di conseguenza, essere buoni ingranaggi nel loro lavoro è tutto ciò che viene loro richiesto e garantisce un buon comportamento e buone conseguenze. Essendo buoni ingranaggi, le persone suppongono poi di ottenere automaticamente ciò a cui aspirano.
Questo può essere chiamato "pensiero magico" perché possiede tre caratteristiche principali che definiscono la parola "magia": semplicità, immediatezza e facilità. Lo scopo di questo saggio è esaminare se e come ciò avvenga realmente in tre campi: la medicina, l'etica e la vita in generale.” Nella medicina questo è evidente: mi aspetto dalla medicina che risolva per me, al posto mio, il mio problema, in maniera automatica, istantanea. È l’alienazione della salute nelle mani della tecnologia, di cui parlava Ivan Illich, uno dei padri del pensiero medico, nel suo libro Nemesi Medica.
Questo non vuol dire che la tecnologia sia l’ostacolo; anzi, ben venga tanta tecnologia; quante persone salva e salverà! Occorre ridare in mano al paziente la sua capacità di decidere, di curarsi, di cercare conforto, di cercare il medico da seguire. Per questo su queste pagine recentemente spiegavo che questa medicina sembra essere fatta solo per chi si sa far valere, cioè per chi cerca il riconoscimento del suo diritto, con scapito dei più deboli, anche quando il diritto supposto non è un diritto franco.
Occorre ridare in mano al paziente la salute. Ma come fare, se ormai ogni autoconsapevolezza sul corpo è venuta a mancare (provate a chiedere ad un diciottenne quanto dura una gravidanza o cosa fare in caso di influenza, cose che i nostri nonni avevano ben chiare)?
Ma come ripartire, in un’epoca di alienazione della salute e dopo anni di depauperamento etico e logistico della sanità? Hanno dato la cattiva informazione che la sanità invece che medicina debba essere tecnologia e – complici anche noi medici - hanno creato un popolo di analfabeti sanitari che si smarriscono nella corsa alla ricerca della pillola magica.
Carlo Bellieni