Gentile direttore,
la società occidentale ha una mentalità digitale, solo quello che è classificabile esiste. La medicina è diventata anche lei digitale, e non solo nell’abbondanza dei processi informatici, ma anche perché vuole classificare tutto e non interessarsi di quello che non è classificabile. Così le persone e le malattie “strane”, invece di diventare casi interessanti diventano intoppi in un ingranaggio aziendale retto dall’efficientismo. E quante volte abbiamo sentito la frase “questo non è mio compito”, che prelude a un rimpallo di responsabilità (e del paziente) da un reparto all’altro? In altre parole, l'assistenza sanitaria è fatta “per i sani”. Uso questo termine come paradosso, intendendo per “sani” coloro che hanno una malattia, ma è una malattia “normale”, che è ben descritta nei testi e i cui sintomi il paziente può descrivere perché sa e può farlo; ovvero i pazienti adulti, autonomi e autosufficienti. I più fragili, quelli che non possono essere classificati, e quelli che non sanno o non possono parlare si devono spesso accontentare. Questa è la conseguenza del pensiero calcolativo ben descritto da vari filosofi della scienza nel secolo scorso: chi non è categorizzabile, e chi non sa rivendicare e descrivere il proprio dolore passa sotto silenzio. È il caso delle persone con disabilità mentale, descritte nel Lancet come “invisibili” al sistema sanitario.
Quanti medici e infermieri rientrano in questa mentalità? In una sanità aziendalizzata, governata dal principio della prestazione, alla fine ci si adegua: è richiesto solo di comportarsi bene nel proprio ruolo, nell'ambito delle proprie competenze, e di non osare avventurarsi in qualcosa che va al di là dei rigidi protocolli di lavoro. E allora vai col “non è compito mio”. Questo sistema porta al massimo alla mediocrità. Un sistema aziendale si contenta della mediocrità perché è fatto per essere routinario, ripetitivo, non creativo, senza innovazioni che generino cambiamenti. Ma questo sistema porta alla perdita di motivazione, quindi alla fuga.
La medicina aziendale ha portato anche a sviluppare l’”effetto SUV”. Si tratta di quel fenomeno per il quale avendo a disposizione tanti esami e tanti farmaci, si usa di tutto tra questi e quelli, in modo di sentirsi “al sicuro”, come avviene a chi guida un’auto super accessoriata. Ma l’eccesso di accessori (o di farmaci o di test) fa sentire impropriamente al sicuro, con conseguente sprechi, ma soprattutto genera calo dell’attenzione, e quindi aumento di incidenti. Purtroppo i “panel di esami” che si prescrivono automaticamente, o i farmaci ridondanti dati per inerzia sono la conseguenza di un sistema aziendale, nato per evitare gli sprechi e finito col generare un lavoro routinario (portando così a sprechi di altro tipo). Abbiamo studiato diagnosi differenziali e fisiopatologie per questo? Eppure non sembra che oggi sia questo ciò che nella gran parte dei casi è richiesto?
La medicina calcolatrice/aziendale è la “medicina dei sani”. È fatta per il paziente adulto medio. Non considera la medicina di genere, le necessità delle minoranze, delle malattie rare, le emergenze se non sei rianimatore, le stranezze dei bambini e dei disabili. L'assistenza sanitaria occidentale appare inclusiva, ma lo è? O non è piuttosto una medicina “autocratica”, cioè una medicina per chi è autonomo, cioè per i malati adulti, abbastanza benestanti, autonomi nel muoversi e nell’esprimersi? Preferiremmo avere una medicina più esuberante, più innovativa senza essere temeraria, più collaborativa tra le varie discipline e più in grado di dare fiducia al singolo medico perché nessuno senta di essere invitato a “limitarsi al suo”.
Avere una dirigenza motivata è l’unico sistema per avere una sanità che esca dalla logica aziendale. A quando una vera riforma morale della sanità? Per questo lo Stato non può lesinare sulla sanità. Non vengano a dirci che i soldi non ci sono, se sono documentati sprechi in sanità nell’ordine di 20 miliardi di euro all’anno. Tutto questo i medici lo capiscono e spesso si sentono degli impiegati in un sistema che vede i pazienti trasformati in clienti. E fuggono.
Carlo Bellieni
Membro Commissione Regionale Bioetica Regione Toscana