Gentile Direttore,
l’immagine evocata dal prof. Cavicchi nel suo ultimo articolo (Qs 30 maggio) di Salomone che pensò di tagliare in due il bambino conteso da due madri per darne a ciascuna di loro una metà, rende decisamente bene l’idea che si sta concretizzando di un medico di famiglia per metà dipendente e per metà convenzionato. Ma ovviamente se tu tagli a metà un bambino non ottieni due bambini ma fai morire il bambino.
Ed è esattamente quello che teme il prof. Cavicchi e che dovrebbe temere chiunque abbia a cuore la medicina del territorio, ma evidentemente le logiche “politiche” non sono preoccupate di questo: l’importante è salvaguardare la convenzione per far contenti i sindacati e accontentare le Regioni che vogliono disporre del medico di famiglia a piacimento.
Come non temere questa figura giuridica ibrida che in un mio precedente articolo ho descritto come un ircocervo (Qs 4 febbraio 2022) un mostro mitologico per metà caprone e per metà cervo?
Stupisce il silenzio assordante di quanti a vario titolo interessati stanno a guardare senza preoccuparsene come se nulla di quanto sta avvenendo potesse scalfirli, tanto la riforma richiederà tempi lunghi e nel frattempo molti di noi saranno probabilmente usciti dalla professione. L’importante specie per il sindacato maggioritario è che sia stata mantenuta la convenzione; il resto è l’inevitabile prezzo da pagare.
E così si pensa di risolvere la carenza dei medici di famiglia spostandoli da una parte all’altra, poco importa se è impensabile pensare di contenere l’attività ambulatoriale in 20 ore esatte per poi correre a fare le restanti 18 in case della comunità distanti spesso 30-50 km dalla sede dove si ha lo studio; poco interessa se non si intravede miglioramenti nella qualità del nostro lavoro.
Si è accettata una “riforma” della medicina territoriale senza una discussione sul tipo di medico che vogliamo né tantomeno sul tipo di assistenza necessaria a far fronte alle sfide del nuovo secolo.
I medici sono stanchi di fare i burocrati, i passa carte o i telefonisti: c’è il bisogno di recuperare l’atto del curare, la vista medica, il ragionamento clinico, la diagnosi e la terapia. Io non vedo in questa riforma nessun spunto che migliori la qualità del nostro essere medico. La questione medica sembra definitamente tramontata, un seme gettato nel deserto , non sufficientemente irrigato per poter germogliare e dare frutto. Una occasione persa.
Intanto diventiamo qualcosa di più di un convenzionato e qualcosa meno di un dipendente: ci potranno comandare a bacchetta dicendoci dove andare e che fare ma senza il riconoscimento dei diritti basilari dei lavoratori dipendenti: malattie, ferie, maternità, tredicesima, infortunio. Si potrà continuare a morire sul lavoro nell’indifferenza dei nostri datori di lavoro.
Ma in questa “riforma della medicina territoriale” non vedo neanche nessuna riflessione sul cambiamento in atto nella società, sui bisogni assistenziali dei cittadini, sulla presa in carico. Temo che abbia ragione il prof. Cavicchi quando afferma che “se per l’assessore l’importante è che il cittadino quando ha bisogno trovi qualcuno, che risponda al telefono, che si faccia trovare nelle case della salute, allora vuol dire che quello che conta per davvero è presidiare il territorio non curare le persone”.
Del resto con la pandemia è stato stressato proprio il fatto che i cittadini facessero fatica a mettersi in contatto con un medico facendo ricadere tutta la colpa sui medici di famiglia senza evidenziare che i servizi di igiene pubblica sono saltati quasi subito e che la medicina del territorio ha dovuto sobbarcarsi una mole di lavoro inverosimile.
Siamo stati il capro espiatorio dei tagli fatti da anni sulla sanità e adesso chiedono la nostra testa perché qualcuno deve pur essere immolato per placare gli animi dell’opinione pubblica.
Poco importa se questo porterà alla morte del “bambino” tanto c’è un mondo fatto di cooperative, assicurazioni, enti mutualistici privati pronti a sostituire la sanità pubblica come già si può ben vedere.
Peccato che questa “dissoluzione” della sanità pubblica avvenga sotto l’egida del ministro più a sinistra che la nostra Repubblica abbia mai avuto.
Ornella Mancin