Intervista a Salvo Calì: “Correggere il tiro su welfare e sanità”
Investire risorse per rilanciare l’area delle cure primarie ed anche uscire da un’arretratezza culturale e di comunicazione tutta interna alla categoria medica. Queste alcune delle linee d'azioni presentate a Quotidiano Sanità dal presidente del Sindacato dei medici italiani (Smi).
18 NOV - “Innalzare l’età pensionabile non è una bestemmia, ma una necessità della storia. Com’è una necessità della storia rovesciare il paradigma dell’economia classica che annovera la sanità all’interno della spesa per la sicurezza sociale, espressione di una cultura che considera questa voce di spesa pubblica come spesa assistenziale. Non è così, perché la spesa sanitaria non è una spesa assistenziale e improduttiva, ma è un investimento vantaggioso”.
Così Salvo Calì presidente del sindacato dei medici italiani che, in questa intervista a
Quotidiano Sanità, presenta la sua ricetta per correggere welfare e sanità. Temi al centro del convegno Smi organizzato oggi a Napoli:
Dottor Calì, welfare e sanità sono i temi sotto i riflettori. Avete in mente un’altra riforma?
Direi proprio di no. Ma sicuramente c’è la necessità di correggere il tiro rispetto ad alcuni importanti aspetti che influiscono direttamente sulla tenuta del nostro sistema. A partire dalla spesa sanitaria, o meglio dalla sua riduzione, che non è solo una diminuzione tout court dei costi, ma un calo complessivo di investimenti e risorse. Mi spiego. In tempi di crisi economica come al solito i tagli sono indirizzati verso quelle attività considerate come un costo piuttosto che come un’occasione di sviluppo. Un’azione intrapresa già con le riforme degli anni ‘90 quando c’era stato un tentativo pesante di ridimensionare il Ssn, e all’epoca viaggiavamo con una spesa inferiore al 6% del Pil. Ora il quadro è nettamente peggiorato: nel prossimo triennio assisteremo ad una contrazione importante del fondo sanitario nazionale. Le ricadute negative sul sistema assistenziale saranno quindi pesantissime. Non solo nelle Regioni sottoposte a piani di rientro, ma nei prossimi anni anche in quelle considerate virtuose. Penso ad esempio al Piemonte (già in piano di rientro), al Veneto, realtà con i conti in ordine, ma che hanno già iniziato ad avere serie difficoltà. Questo è un tema che va affrontato, anche perché la cosiddetta spesa sanitaria non è una spesa improduttiva, ma un investimento vantaggioso: a fronte di un impegno pari a circa l’8,5% del prodotto interno lordo, contribuisce a questo per valori superiori al 13%. Tutto ciò naturalmente non esclude che la strada della lotta agli sprechi vada battuta con determinazione. Riconvertire la spesa e recuperare sugli sprechi è un esercizio virtuoso che sosteniamo con forza.
E sul welfare?
Per quanto riguarda il welfare ritengo che il recupero dell’assetto economico debba interessare il sistema previdenziale. Abbiamo un welfare sbilanciato sul sistema pensionistico: dalla pensioni di anzianità ai limiti dell’età pensionistica. Un nodo reale che se non si scioglie andrà a gravare sulle nuove generazioni alle quali verrà consegnato un debito enorme. Ma che si rifletterà negativamente anche sulle politiche di sviluppo e di sostegno all’occupazione, non dimentichiamo che il lavoro sta diventato sempre più precario.
Precariato che ormai sta caratterizzando anche la vostra categoria.
L’attuazione delle misure dettate dai Piani di rientro con il blocco del turn over spingono le aziende a precarizzare i rapporti di lavoro per cui abbiamo ormai già una quantità enorme di contratti atipici. Parliamo di circa 10mila tra contratti a tempo determinato, co.co.co., incarichi provvisori. Tutto questo provoca inevitabilmente degli atteggiamenti del lavoratore, quindi del medico, nei confronti del Ssn. Rischiamo in poche parole di disperdere un patrimonio di professionalità e di ridurre la qualità complessiva del nostro sistema sanitario. Questo è l’allarme che non intendiamo lanciare e rispetto al quale va fatta un’attenta e profonda riflessione.
Altra questione sotto la lente è la sostenibilità dei servizi sanitari regionali in particolare nelle regioni sottoposte a Piani di rientro. Che idea vi siete fatti?
Tagliare i costi è un esercizio ragionieristico. Il difficile è razionalizzare senza ridurre l’offerta dei servizi. Occorre non solo una gestione ottimale delle risorse, ma anche un salto culturale. Un esempio su tutti, la Sicilia. Gli intenti sono stati lodevoli: razionalizzazione della rete ospedaliera, ottimizzazione dei posti letto, previsione dell’apertura di strutture territoriali per consentire che la domanda di cronicità venga assorbita dal territorio. Ma quando passiamo dalla teorizzazione ai fatti la situazione cambia: in Sicilia come in altre Regioni si assiste ad uno scarto notevole tra la volontà del legislatore e la prassi, tra la norma e la loro concreta attuazione. Questo avviene perché non si riesce a riconvertire un sistema costruito sulle acuzie in un sistema in grado di prendere in carico la cronicità. Tutti tentativi fin ora attuati si fermano alla sperimentazione.
Il motivo?
C’è sicuramente un problema di risorse. Ma non solo, c’è un’arretratezza culturale e di comunicazione tutta interna alla categoria dei medici. Esiste una frantumazione tra le categorie mediche, tra i dipendenti del Ssn e tra tutte le categorie mediche in convenzione, perché rispondono a logiche contrattuali differenti. Per questo abbiamo lanciato provocatoriamente la proposta del contratto nazionale unico. Proprio per superare questo impasse.
Tirando le somme?
Occorre modificare i punti di maggiore debolezza dell’attuale legislazione e organizzazione sanitaria per condividere i tempi di un percorso correttivo necessario al cambiamento, con la consapevolezza che bisogna investire risorse nel sottosistema sanità. Risorse per riorganizzare e rilanciare l’area delle cure primarie, di importanza strategica per l’assetto futuro del Ssn, nonché per riorientare il ruolo dell’ospedalità e del socio-assistenziale. La categoria medica invece deve avere il coraggio di fare un salto culturale.
18 novembre 2011
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