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Comma 566. La mediazione possibile per uscire dell’impasse

di Roberto Polillo

La necessità di giungere a un nuovo equilibrio inter-professionale è ormai all’ordine del giorno. Una via è quella di ripensare le competenze dei diversi attori professionali. Mantenendo tuttavia ben   distinti la diagnosi e terapia dalla organizzazione del servizio (gestione/governo clinico)

10 APR - La battaglia sulle competenze che oppone l’universo mondo delle professioni sanitarie e i medici è un altro dei segni della crisi del nostro SSN. Il campo istituzionale del sistema salute è profondamente instabile e tale instabilità ha origini multiple.
 
Da un lato pesano le forti contraddizioni all’interno dei soggetti istituzionali pubblici (lo stato e le regioni) a cui compete la definizione degli aspetti normativi del SSN, compreso l’entità del finanziamento del SSN e la modalità di allocazione delle risorse (sempre più scarse).
Dall’altro è ancora più intenso il dis-allineamento tra il pilastro regolativo basato ancora sulla centralità della professione medica (sebbene sempre più messo in discussione) e il pilastro culturale-cognitivo dove le istanze emergenti delle altre professioni sanitarie (non solo infermieristiche) si scontrano con le resistenze della professione medica che non accetta di perdere, oltre lo status, anche le riserve di legge relative all’atto medico.
 
Il casus belli è ora, come ampiamente noto il comma 566, con cui il governo, è entrato a gamba tesa nel dibattito in corso. Il provvedimento, si articola intorno alla supposta dicotomia tra atto complesso di riserva dei medici e tutto ciò che complesso non è, e che viene indicato attraverso l’espressione generica “compiti, funzioni e obiettivi”di attribuzione delle professioni sanitarie. Un provvedimento che, come prevedibile, ha suscitato aspre polemiche e qualche (purtroppo poche) proposta di mediazione.
Mi ricollego al dibattito in corso e dopo avere segnalato i punti critici del provvedimento cercherò di proporre a mia volta alcune ipotesi che possano aiutare ad uscire da questa impasse.
 
I punti di criticità. Il primo punto debole del testo è la sua illogicità e debolezza argomentativa (aggiunta alla scarsa chiarezza); non credo infatti che esista allo stato attuale nessuna codifica normativa o legislativa attraverso la quale un atto medico possa definirsi complesso o un suo contrario. La complessità dell’atto infatti non risiede soltanto nella difficoltà, intensità dell’impegno degli operatori nella sua esecuzione. Ogni atto va infatti riferito a quello specifico paziente e alla condizione di rischio in cui si trova ed implica quindi una valutazione clinica completa ed esaustiva.
 
Faccio un esempio per tutti. Un prick test per un allergene inalante è un atto semplicissimo che si esegue pungendo la cute del paziente attraverso una goccia di estratto. Un test che può essere effettuato da chiunque e che solo in casi eccezionali può comportare rischi per il paziente. Lo stesso test con un antibiotico può al contrario determinare uno shock anafilattico, con rischio di morte in una manciata di minuti in un soggetto sensibilizzato al farmaco. Identica procedura, identica difficoltà di esecuzione ma condizioni di rischio incommensurabili tra loro. Chi è allora in grado di discernere le due condizioni e assumersene le responsabilità in caso di gravi incidenti?
 
Il secondo punto debole è di tipo espistemico e riguarda la mancata comprensione del procedimento diagnostico e delle sue regole. Tutti sanno infatti che anche le malattie più gravi possono manifestarsi al loro esordio con sintomi sfumati e di scarso rilievo (“scogli sotto l’acqua” ammonivano i medici del ‘700) e che l’abilità del buon medico è quella di tenere sempre presente a mente questo dato e di saper discernere caso per caso attraverso osservazione ed esperienza maturata.
 
In altre parole in medicina il valore euristico di un segno (quello che è dato all’osservazione) o di un sintomo (quello che è nell’esperienza del paziente) è sempre modesto e limitato e può acquistare il suo reale significato solo nell’ambito di un ragionamento più ampio. Un procedere di tipo ipotetico- deduttivo che presuppone una accurata conoscenza dei diversi “ens morbis” ovvero sia delle malattie intese come “forme codificate” simili alle idee platoniche   e una solida esperienza clinica senza le quali è impossibile dare senso al ragionamento diagnostico-clinico. La medicina clinica è come la patologia medica la conoscenza approfondita dell’insieme della malattie umane, così come definite dalla medicina ufficiale, ma a differenza di quest’ultima essa comporta anche qualcos’altro, dovendosi rapportare allo specifico caso clinico che abbiamo davanti e le cui caratteristiche spesso non sono generalizzabili o riferibili alla serie.
 
La diagnosi è dunque un complesso processo ermeneutico che implica il sapere teorico ma soprattutto una capacità argomentativa basata, come ci illustra il filosofo metodologo Antiseri, su quello che viene definito «modello Popper-Hempel» stando al quale un fatto (o, meglio, un asserto – Explanadum – che descrive un fatto) è spiegato scientificamente quando è dedotto da un Explanans formato da leggi generali L1, L2, L3, …  Ln in connessione con condizioni iniziali C1, C2, C3, … Ck antecedenti e/o simultanee al fatto da spiegare. In realtà, un fatto è causa di un altro fatto (l’effetto) solo in relazione a leggi generali che appunto legano in modo universale fatti a fatti, fenomeni a fenomeni. Senza leggi non c’è né spiegazione né previsione. E in ogni spiegazione, da quelle offerte nella vita quotidiana a quelle proposte nelle scienze più rigorose, la presenza esplicita o implicita, perché, in quest’ultimo caso, data per scontata) delle leggi non è un lusso quanto piuttosto una necessità logica.
 
La diagnosi dunque si basa sulla formulazione di ipotesi che devono resistere alla loro falsificazione, e basate su una razionalità di tipo “incrementale”, steps by steps (mano a mano che si procede nella raccolta dei dati clinici delle indagini) che può essere acquisita solo attraverso una lunga  pratica clinica. In medicina dunque è solo a posteriori che un sintomo clinico o un segno può essere definito di minore importanza e un atto di bassa complessità e chi sostiene il contrario semplifica una materia di cui ignora le complesse implicazioni epistemologiche
 
La mediazione possibile. La necessità di giungere a un nuovo equilibrio inter-professionale è ormai all’ordine del giorno e tale urgenza non può essere certo risolta con la proposta avanzata da alcuni deputati PD di riportare indietro gli orologi della storia, ristabilendo una sorta di mansionario per il personale non medico. Occorre dunque ripensare le competenze dei diversi attori professionali mantenendo tuttavia ben   distinti i due campi semantici riferiti da un lato alla diagnosi e terapia e dall’altro alla organizzazione del servizio (gestione/ governo clinico).
 
Per quanto riguarda la capacità di formulare diagnosi e terapia, non ho dubbi nel ritenere che debba essere preclusa ogni possibilità di delegare tale attività a chi ha un percorso di studio e formativo diverso dal medico. E’ solo il medico che attraverso lo studio esaustivo e completo della patologia e della clinica è in condizioni teoriche di pervenire ad una corretta diagnosi. Un tale percorso di studi è invece, allo stato attuale, totalmente assente nel curriculum universitario e formativo delle professioni sanitarie e non può essere surrogato da un percorso post-laurea.  Ciò non toglie che nel follow up dei pazienti, il controllo di determinati parametrici clinici – laboratoristici possa essere delegato con ottimi risultati al personale infermieristico. Penso ad esempio al follow up di pazienti in trattamento farmacologico per patologie neoplastiche (della mammella in primis) o per altre patologie croniche (l’asma o il diabete) necessitanti un monitoraggio su protocolli predefiniti e concordati in seno all’equipe clinica. Questo e questo solo è dunque il campo in cui le competenze non mediche possono avere un ulteriore sviluppo
 
Per quanto riguarda il secondo aspetto della organizzazione del servizio (gestione/governo clinico) ritengo che i tempi siano maturi per due diverse operazioni:
1. separazione delle funzioni gestionali da quelle cliniche professionali (sulla falsariga della recente proposta dell’ANAAO)  definendo percorsi di carriera paralleli e fino ad un certo punto intercomunicanti tra loro.
2. Ridefinizione dei criteri di accesso alle funzioni gestionali vere (e non a quelle attuali che di gestione non hanno praticamene nulla) precedendo uno specifico percorso di specializzazione post laurea, riservato a tutto il personale provvisto di laurea magistrale o di laurea in medicina. Per essere ancora più preciso tra le funzioni gestionali non rientrerebbe  più la direzione della UOC, essendo in essa prevalente la funzione clinica di indirizzo,  ma riguarderebbe le diverse possibili aggregazioni di  UOC in aree omogenee, i dipartimenti, i distretti  etc. Ovviamente al titolare di tale funzione (medico  o non medico che sia)  verrebbe preclusa ogni attività clinica, essendo a lui affidata la gestione (vera)  e il governo clinico complessivo delle diverse aggregazioni a lui affidate.
 
Roberto Polillo

10 aprile 2015
© Riproduzione riservata

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