Troise risponde a Rossi: “Risolvere la questione intramoenia nel contratto? E con quali risorse?”
“Qualcuno dovrebbe informarlo che la disponibilità del Governo, in cui il suo partito è gran parte, si ferma ad un incremento, dopo 7 anni di blocco, di 20 euro al mese, lorde naturalmente”. Quella di Rossi è “pura ed inutile demagogia creando un nemico per rimuovere responsabilità della politica”
24 MAR -
Gentile Direttore,
l’ostinazione con cui il
Governatore Rossi continua, imperterrito e tetragono alle critiche, che nemmeno prova a confutare, la sua personale crociata contro la libera professione, intra ed extra moenia, appare degna di miglior causa. Le scelte ideologiche sono da rispettare, anche quando rispolverano vecchi arnesi quali lo schema della lotta a chi guadagna molto, i medici che “quintuplicano lo stipendio”, ma molto paga di quelle tasse che garantiscono la sostenibilità e la fruibilità dello stesso sistema sanitario a chi paga di meno. Ciò che rimane inaccettabile è l’accusa di truffa, nemmeno velata, a tutti i medici italiani che esercitano la attività libero professionale, colpevoli di creare quelle liste di attesa che, di incanto, scomparirebbero con la sua abolizione.
Ed il porsi, per di più, nella veste di riparatore “delle tensioni e degli squilibri creati nel mondo sanitario” dalla vituperata attività, confondendo, però, la libertà di scelta dell’ospedale, certo garantita, con la libertà di scelta del medico, difficile da assicurare. Pura ed inutile demagogia creare un nemico per rimuovere responsabilità della politica, adusa a tacere i costi della propria invadenza pervasiva nella gestione della sanità e ad autoassolversi per le proprie scelte, preferendo vedere l’indice e non il campanile.
In quanto al fatto che il Contratto è la occasione buona per ridiscutere le retribuzioni dei medici all’insegna della valorizzazione, anche economica, dei meriti e delle competenze professionali (valutati da chi?), qualcuno dovrebbe informarlo che, per quanto se ne sa, la disponibilità del Governo, in cui il suo partito è gran parte, si ferma ad un incremento, dopo 7 anni di blocco, di 20 euro al mese, lorde naturalmente. Mi sembra un buon argomento per la sua campagna elettorale, da affrontare magari anche nella legge che si prepara a presentare. Ma Rossi è per il merito e “chi fa meglio merita di avere di più”. Solo “qualcosa”, però.
Rinviando a quanto l’Anaao propose nel lontano 2012, in un convegno organizzato con Cittadinanzattiva (ma chissà quanti convegni in merito avrà organizzato l’assessore Rossi!), riportato da
Carlo Palermo, per governare un fenomeno complesso quale le liste di attesa, al quale i medici hanno finalizzato 3 milioni di ore di lavoro sottratte all’aggiornamento, il 5% del fatturato della attività libero professionale e la disponibilità di orario aggiuntivo ad un costo da saldi, voglio trarre spunto da proposte vecchie, per dirla con il Ministro, sia pure presentate con il vestito nuovo “di sinistra”, per tornare sulla questione delle diseguaglianze in sanità.
Nessuno può negare che esistono profonde diseguaglianze tra i cittadini italiani nella esigibilità del diritto alla salute garantito dalla Costituzione e che esse provochino una perdita di consenso e di fiducia nella sanità pubblica. Sullo sfondo di una spesa sanitaria al punto piu basso, in rapporto al PIL, dell’ultimo decennio ed al terzultimo posto tra i paesi UE a 15. Effetti della crisi, si dice, discutendo se la sanità pubblica abbia subito tagli maggiori di altri settori, come sosteniamo noi, confortati dal dato del debito pubblico implicito e dai rilievi della Corte dei Conti, o minori, come sostiene il Governo.
Il federalismo di abbandono, termine coniato da Rossi in altri tempi, ha prodotto una declinazione di un diritto uno e indivisibile in tanti modi diversi, a seconda della residenza e del reddito. E gli effetti sociali cominciano a vedersi al Sud, con una aspettativa di vita inferiore di un anno rispetto al resto del Paese ed una morbilità maggiore. Non più compensati da un tasso di natalità elevato o da una migliore qualità della vita. Si tratta, allora, di mettere in campo politiche redistributive, a partire dal fondo sanitario che, penalizzando i soliti noti, oggi va per il 23% al Sud, dove vive un terzo della popolazione italiana in condizioni sociali ed economiche peggiori della media del Paese. Ed intervenire su quella mobilità sanitaria che muove ogni anno 5 mld di euro lungo l’asse sud-nord, con l’effetto Robin Hood alla rovescia di impoverire i poveri ed arricchire i servizi sanitari delle regioni ricche, Toscana compresa. Chissà se la solidarietà è ancora un valore di sinistra.
A queste diseguaglianze legate al CAP si aggiungono quelle legate al reddito, che, come risaputo fin dal black report inglese del 1980, contribuiscono a ridurre la coesione sociale, specie nei periodi di crisi. l’Italia nel 2004 aveva in Europa la più bassa diseguaglianza sociale in sanità. Si curi chi può, recitava il rapporto di Lega Coop nel 2015. Il valore del ticket raggiunge circa il il 3% del FSN, al netto dei furbetti, rendendo molte prestazioni più convenienti nel privato, specie se il suo importo è legato al reddito, con gioia degli evasori fiscali, la spesa privata raggiunge i 3 punti di PIL, il 10% della popolazione non si cura ed il 7% si indebita per curarsi. Percentuali che aumentano con il diminuire del reddito, cioè nelle stesse Regioni dove il finanziamento pro capite pubblico è più basso. E’ colpa della libera professione dei medici o della politica del più forte? Senza scomodare la sinistra basterebbe ricordare la lezione di Don Milani.
Lo stesso fenomeno liste di attesa, per quanto fisiologico nei sistemi sanitari universalistici, sta raggiungendo livelli patologici per il combinato disposto della contrazione del numero dei professionisti impiegati e dei posti letto disponibili per la attività non legata alla urgenza. Dirà qualcosa il calo di 6000 medici o il numero di posti letto più basso d’Europa? Solo che siamo i più furbi? Il lavoro medico non è una variabile estensibile all’infinito, indipendente da riposi, durata, condizioni, retribuzione. Il lavoro è il motore del sistema, puntualmente decapitalizzato e svalorizzato da Governi e Regioni in questi anni, banalizzato in minutaggi da tempi moderni, costretto tra taylorismo e toyotismo. Più lavoro medico significa più occupazione giovanile e piu quantità e qualità delle prestazioni.
Nel dibattito politico odierno la sanità è desaparecida, se non come costo da tagliare o cronaca giudiziaria. I politici intervengono alternando populismo a luoghi comuni, demagogia a scarsa conoscenza del funzionamento di un sistema complesso. Il fatto è che è cambiato il contesto rispetto ai decenni passati, quando c’era almeno un partito, in maggioranza o alla opposizione, disponibile ad intestarsi una difesa della sanità pubblica. La sanità non è, oggi, nell’agenda del Governo perchè non è nell’agenda dei partiti al Governo.
Il PD, cui spettano le responsabilità maggiori per il ruolo, la storia, gli attori che mette in campo o lascia in panchina, ha perso la salute. E la prognosi rimane riservata. Per la prima volta dall’approvazione a larghissima maggioranza della L. 833/78, non si vede un partito o una corrente che voglia intestarsi non la difesa, ma il rilancio della sanità pubblica e dei cambiamenti necessari. Sul campo sociale si vedono solo le idee e le battaglie dei medici, lasciati soli a lanciare allarmi nel vuoto di intellettuali, forze politiche e sociali.
Mentre da tempo, segnali premonitori, movimenti carsici e messaggi politici, più o meno espliciti, parlano di costruire, sull’abbandono della solidarietà fiscale, la sanita per i ricchi, prefigurando lo smantellamento del sistema universalistico o, la versione soft, di un universalismo selettivo, lo Stato oggi si fa imprenditore della sanità privata con i soldi dei libretti postali, scommettendo contro se stesso. E’ tempo che la politica decida se è ancora un diritto costituzionale la tutela della salute di tutti i cittadini. Essere curati secondo i bisogni costituisce un limite etico, civile e sociale oggi fortemente minacciato e, da qualche parte del nostro Paese, già pericolosamente travalicato, in un SSN, che perde pezzi di equità ed universalismo.
Il tema delle diseguaglianze non è separabile da un ripensamento del ruolo delle Regioni, e dei criteri di ripartizione del fondo sanitario che esse si danno. A distanza di 15 anni dalla modifica del titolo V registriamo la frammentazione del Paese, l’indebolimento del senso di cittadinanza nazionale ed il consolidamento o peggioramento delle disparità esistenti tra cittadini delle diverse aree geografiche, una balcanizzazione della assistenza, anche di quella farmaceutica, e delle competenze. Una disarticolazione del SSN, essendo i LEA troppo deboli per proteggerne efficacemente da soli il carattere unitario, che comporta una perdita complessiva di coesione sociale, un progressivo smantellamento di garanzie formali e sostanziali, una accentuazione degli squilibri tra Regioni più ricche e più povere, che si trovano a scegliere tra sviluppo economico e spesa sanitaria.
La soluzione federalista si è associata, di fatto, a una modulazione dei diritti dei cittadini, una accentuazione dei meccanismi competitivi di mercato o quasi mercato, considerando anche l’interesse delle Regioni a politiche tese a reclutare domanda, anche attraverso la libera professione dei medici, su aree più ampie di quelle normalmente servite, generando chiare forme di migrazione sanitaria e\o a mettere dogane sanitarie per impedire forme di reclutamento dei propri cittadini da parte di regioni meglio dotate. Senza contare la irresponsabilità della spesa, cresciuta notevolmente per la vicinanza ai luoghi ove si crea consenso elettorale. Il federalismo, oltre a produrre un neo centralismo regionale, ha ampliato le diseguaglianze tra le varie aree del Paese fino a farle diventare divaricazioni.
Cambiando radicalmente lo spazio e le prospettive dei diritti di cittadinanza che cessano di essere un bene pubblico nazionale per assumere una valenza locale, trasformando la appartenenza locale nella fonte primaria del diritto sulle risorse. Le implicazioni della modifica del titolo V sotto il profilo della equità, e sui principi di equità e di giustizia distributiva, hanno avviato un processo di devoluzione dei principi di giustizia sociale e prodotto un sistema in cui i cittadini di uno stesso Paese non condividono più gli stessi principi in un ambito rilevante come quello della salute. E questo che ferisce mortalmente l’universalità del Ssn.
E se la malattia si chiamasse federalismo? E se qualcuno proponesse una legge di iniziativa popolare per abolire le Regioni, o almeno il loro ruolo nella Sanità? Chi si fa carico di questo problema?
Costantino Troise
Segretario Nazionale Anaao Assomed
24 marzo 2016
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