Il calo delle prestazioni sanitarie è molto consistente. Una recente revisione dei dati relativi a 20 Paesi, tra i quali l’Italia, ha messo in luce una riduzione complessiva del 37% delle prestazioni sanitarie, più alta per le visite ambulatoriali (42%) e inferiore per i ricoveri (28%), la diagnostica (31%) e i trattamenti terapeutici (30%), riferibile soprattutto ai pazienti con patologie meno severe (1).
Per quanto riguarda l’Italia, le sette regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Puglia e Sicilia) che hanno avviato un processo di monitoraggio dei dati basato sui sistemi informativi regionali hanno registrato una consistente riduzione degli accessi al Pronto Soccorso, soprattutto per quanto riguarda i codici bianchi e verdi e una diminuzione dei ricoveri ospedalieri, riconducibiliin particolare alle patologie ischemiche di cuore, alle malattie cerebrovascolari e agli interventi di chirurgia elettiva, la cui riduzione si è spinta fino all’80% (2).
Le conseguenze della riduzione dei servizi sulla salute
Tutto ciò non è senza conseguenze per la salute delle persone. Le segnalazioni di disagi, sofferenze ed eventi avversi attribuibili ai ritardi, agli ostacoli e ai differimenti di prestazioni essenziali sono sempre più numerose e riguardano diversi settori sanitari, quali ad esempio: i servizi per le vaccinazioni, gli screening oncologici, i servizi di salute mentale, gli interventi di chirurgia elettiva come la protesi d’anca o la cataratta. In questo lungo elenco particolarmente critici sono considerati l’ambito cardiovascolare e quello oncologico.
Per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, la Società Italiana di Cardiologia (SIC), a seguito di uno studio nazionale condotto in 54 ospedali, riferisce che durante il periodo pandemico si è registrata una riduzione dei ricoveri per infarto del miocardio pari al 48,4%. La riduzione ha riguardato soprattutto gli infarti meno gravi (65,4%) rispetto a quelli più gravi (26,5%) per i quali la mortalità è passata dal 4,1 al 13,7%. Si è registrato inoltre un aumento consistente del tempo trascorso tra l’insorgenza dei sintomi e l’intervento di rivascolarizzazione (3). Dati allarmanti, confermati da altri studi che hanno rilevato anche un eccesso di mortalità del 35% per eventi cardiovascolari acuti avvenuti al proprio domicilio (4).
In campo oncologico, una recente revisione sistematica, che si proponeva di valutare gli effetti sugli esiti dei trattamenti conseguenti all’allungamento dei tempi di attesa necessari per accedere alle cure, ha calcolato che per ogni quattro settimane di tempo intercorso tra la diagnosi e la cura si verifica un aumento della mortalità generale pari al 6-8% per gli interventi chirurgici, 9-23% per la radioterapia e 1-28% per la chemioterapia (5).
Altri studi, infine, hanno messo in luce che la riduzione dei servizi sanitari si accompagna ad un aumento delle diseguaglianze di salute tra ricchi e poveri, dato che le conseguenze peggiori dovute alla contrazione dei servizi gravano inevitabilmente sulle fasce di popolazione più svantaggiate. I malati di mente, le persone in stato di indigenza e gli immigrati sono infatti le persone più vulnerabili alle malattie e alle loro conseguenze (6).
Per valutare l’effettivo impatto sulla salute delle riduzione dei trattamenti sono comunque necessarie ulteriori ricerche, tenuto conto anche del fatto che il minor accesso ai servizi sanitari durante la pandemia comporta un duplice effetto: da una parte le conseguenze negative dovute al venir meno di un cure essenziali e dall’altro gli effetti positivi derivati dalla riduzione di prestazioni inutili, ridondanti o superflue.
Di fatto non tutti gli effetti della diminuzione delle prestazioni hanno una valenza negativa per la salute dei pazienti. Come ben sappiamo, infatti, in medicina si fanno anche molte prestazioni inutili o eseguite in modo non appropriato, da cui possono conseguire effetti dannosi per la salute (7). La crisi in corso costituisce, quindi, una buona occasione per riflettere e intervenire su questo fenomeno ben sapendo che la soluzione non può certo consistere in una riduzione generalizzata e incontrollata delle prestazioni, come sta avvenendo in questi giorni.
Senza l’adozione di adeguati criteri di appropriatezza si rischia, infatti, di destinare le prestazioni disponibili non a chi ne ha maggiormente bisogno, ma in modo indifferenziato a chi si presenta per primo. In altre parole, gli interventi devono essere volti in primo luogo a stabilire le priorità cliniche verso le quali orientare le risorse e ad eliminare o quantomeno ridurre gli esami e i trattamenti non necessari o ad elevato rischio di inappropriatezza che costituiscono tuttora una quota rilevante della pratica medica corrente.
Alcune proposte operative
Migliorare l’appropriatezza prescrittiva e ridurre il sovrautilizzo di prestazioni sanitarie non sono certo problemi nuovi per chi si occupa di sanità e nemmeno un compito facile da realizzare tenuto conto dei molteplici fattori che lo alimentano, tuttavia l’attuale periodo di crisi potrebbe rappresentare l’occasione ideale per prenderne consapevolezza e per cercare di orientare le risorse sanitarie (personale, strutture, attrezzature) verso interventi di riconosciuta efficacia.
A questo fine può essere utile richiamare l’attenzione su alcuni progetti già avviati in ambito nazionale perché da essi si possono facilmente desumere alcuni suggerimenti pratici, di immediata attuazione.