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Oncologia sul territorio senza muri tra istituzioni sanitarie. Ecco cosa salvare dell’esperienza Covid per ripensare le reti oncologiche

di Gianni Amunni, Pierfranco Conte

Solo ridisegnando il percorso oncologico e i binari in cui questo avviene si potrà dare un senso alle azioni, anche innovative, sperimentate in questo contesto emergenziale. Occorre quindi ridefinire il paradigma dell’assistenza oncologica promovendo contestualmente competenze adeguate anche al di fuori delle mura ospedaliere e andare nella direzione di una più efficace integrazione ospedale/territorio

19 MAG - La necessaria trasformazione della organizzazione dei servizi oncologici in rete ha forti basi di supporto sia di tipo epidemiologico che clinico.
Ad oggi si registrano in Italia circa 3.500.000 casi prevalenti in oncologia (pazienti in trattamento primario o in ripresa di malattia, pazienti in follow-up, pazienti guariti). Molti di questi pazienti sono in carico esclusivamente alle strutture ospedaliere con una domanda decisamente sproporzionata rispetto all’offerta.
 
Si sono verificate nel tempo alcune modificazioni epidemiologiche legate in parte all’allungamento della vita media (pazienti anziani con tumore associato ad altre patologie croniche) ed in parte al prolungamento delle possibilità di cura fino a fenomeni di vera e propria cronicizzazione della patologia oncologica.
 
La vicenda COVID (che peraltro ha “allentato” il carico emotivo sul cancro e la convinzione diffusa di una gestione esclusivamente specialistica ospedaliera) ha attivato modelli emergenziali sperimentali di presa in carico del paziente oncologico a distanza e soprattutto a livello territoriale e/o domiciliare con discreta efficacia delle prestazioni anche in assenza di chiari modelli organizzativi.
 
Le esperienze della fase COVID
La necessità di salvaguardare la risorsa ospedale impegnata nella gestione dell’emergenza COVID e soprattutto il bisogno di ridurre il rischio di contagio nei pazienti con tumore (fragili e spesso immunocompromessi), ha attivato una riorganizzazione delle attività oncologiche che è avvenuta senza riduzione della offerta.
 
Alcune scelte organizzative sono rapidamente diventate modalità di presa in carico diffuse a livello nazionale:
a) Parte di F.U. gestito a domicilio in sinergia con il Mmg.
b) Alcuni trattamenti eseguiti a casa del paziente con domiciliazione del farmaco (anche ospedaliero).
c) Utilizzo di televisita e teleconsulto per il monitoraggio del paziente in trattamento.
d) Presa in carico di alcuni bisogni assistenziali da parte del Mmg o di strutture di cure intermedie presenti nel territorio.
e) Maggior attenzione ai rapporti rischi/benefici in caso di terapie oncologiche per fasi molto avanzate di malattia e maggior ricorso a programmi di cure palliative/di supporto.
 
Queste ed altre iniziative sono un patrimonio di esperienze su cui ora è necessario fare un triage attento su cosa è giusto e opportuno trasferire dall’emergenza ad una nuova normalità.
 
Qualunque siano le scelte che si andranno a fare è però assolutamente necessario che queste stiano dentro un nuovo paradigma organizzativo.
Solo ridisegnando il percorso oncologico e i binari in cui questo avviene si potrà dare un senso alle azioni, anche innovative, che abbiamo sperimentato.
 
Oncologia tra ospedale e territorio.
La vicenda che stiamo vivendo con la pandemia COVID e i primi risultati delle performance delle varie regioni colpite, hanno dimostrato senza ombra di dubbio che la capacità di dare risposte efficaci ed articolate è stata maggiore in quelle realtà che avevano una sanità territoriale ben organizzata e capace di interagire in maniera strutturata con l’ospedale.
 
Più in generale la progressiva trasformazione delle strutture ospedaliere in istituzioni per pazienti acuti avvenuta negli ultimi anni ha creato un bisogno ed una domanda che deve essere gestita nel territorio secondo criteri di appropriatezza, di qualità e con una forte capacità di integrazione strutturata tra operatori territoriali e specialisti ospedalieri.
 
In questo senso una domanda sostanzialmente inappropriata per l’ospedale può trovare risposte più efficaci nel territorio in un’ottica di integrazione e divisione dei compiti.
 
L’oncologia, ad oggi quasi esclusivamente ospedaliera, può soffrire di questo sbilanciamento e necessita, con sempre maggiore forza, di una declinazione integrata tra ospedale e territorio dei percorsi diagnostico-terapeutici.
La storia naturale del paziente oncologico è fatta di brevi fasi ospedaliere ben strutturate e di lunghi periodi territoriali e/o domiciliari con bisogni che non trovano in questo ambito risposte altrettanto organizzate.
 
Da questa modalità di offerta ne derivano intensità assistenziali a volte eccessive per il reale bisogno in ambito ospedaliero o un carico a questo livello di prestazioni sostanzialmente inappropriate e dispendiose o, infine, una drammatica inadeguatezza qualitativa o quantitativa delle risposte al domicilio o più in generale nel territorio. Il peso empatico della malattia neoplastica a una sostanziale delega all’oncologia (tutta ospedaliera) di bisogni complessi (età avanzata, polimorbilità) rischiano a volte di acuire la fragilità clinica e psicologica del paziente neoplastico.
 
Occorre quindi ridisegnare il paradigma dell’assistenza oncologica superando muri tra istituzioni sanitarie e promovendo contestualmente competenze adeguate anche al di fuori delle mura ospedaliere.
 
Si riportano di seguito alcune proposte operative che vanno nella direzione di una più efficace integrazione ospedale/territorio in oncologia.
1) L’oncologia ospedaliera può prevedere attività anche in proiezione territoriale con modalità innovative di flessibilità e mobilità del personale (inclusa l’estensione territoriale delle Reti Formative delle Scuole di Specializzazione in Oncologia Medica).
 
2) Si devono individuare “recettori oncologici” a livello territoriale con specialisti del settore operanti a domicilio o nelle strutture di cure intermedie.
 
3) Le cure intermedie, l’ospedalizzazione domiciliare sono modalità di assistenza territoriale che devono, secondo precise indicazioni, ospitare anche pazienti oncologici che necessitano di media/bassa intensità assistenziale (in sinergia tra Mmg, specialista territoriale e ospedaliero).
 
4) Il paziente oncologico e la sua presa in carico devono essere inseriti nelle diverse articolazioni del cronic-care model con adeguate competenze specialistiche.
 
5) Alcuni trattamenti oncologici, di basso impegno assistenziale, possono essere eseguiti a domicilio del paziente sotto controllo specialistico in sinergia con il Mmg.
 
6) Una adeguata infrastruttura telematica deve garantire e promuovere pratiche di televisita e teleconsulto con attivazione di tutte le figure coinvolte sia a livello territoriale che ospedaliero.
 
7) Deve essere prevista una cartella clinica informatizzata unica (ospedale e territorio) che deve essere alimentata da tutti i professionisti coinvolti nelle diverse fasi del percorso.
 
8) Il follow-up si configura come un esempio di medicina di iniziativa e deve essere modulato tra specialista e Mmg con momenti strutturati di interazione.
 
9) Viene individuato per ogni paziente un “tutor” che è punto di riferimento per tutti i professionisti coinvolti nel percorso e che agevola i passaggi delle diverse fasi di presa in carico da parte di strutture diverse.
 
10) Il Care-giver ed il volontariato sono parte integrante della equipe di cura e partecipano, o comunque sono coinvolti, nelle valutazioni di percorso.
 
11) Si definisce per ogni fase di malattia il modello assistenziale più appropriato (ospedaliero e territoriale) facilitando al massimo lo spostamento nell’ambito delle diverse tipologie (domicilio, ospedalizzazione domiciliare, cure intermedie, DH, ricovero ordinario).
 
12) Si definiscono nei PDTA con precisione i luoghi di presa in carico e di cura e la tipologia di professionista sanitario di volta in volta coinvolto.
 
Prof. Gianni Amunni
ISPRO, Rete Oncologica della Toscana
 
Prof. Pierfranco Conte 
IOV, Rete Oncologica del Veneto

19 maggio 2020
© Riproduzione riservata


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