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Enti religiosi e riforma del Terzo settore: opportunità, rischi e fattori critici di successo

di Eugenio Anessi Pessina e Alessandro D'Adda

Tre i suggerimenti per le istituzioni sanitarie e socio-sanitarie di istituzione cristiana: esplicitare, unitamente agli altri enti del terzo settore, il fabbisogno di chiarimenti sul piano interpretativo, per poter correttamente valutare le soluzioni tecniche proposte dalla norma e definire il proprio posizionamento nel sistema; riflettere sulla coerenza tra le soluzioni tecniche proposte dalla norma e la propria specifica natura e finalità; sviluppare e avanzare proposte che possano rendere la norma più coerente con le specificità del settore

12 DIC - La sanità gestita da congregazioni religiose o da altri movimenti di ispirazione ecclesiale è un’importante componente del sistema di tutela della salute.
Con riferimento all’attività di ricovero, l’«Osservatorio permanente sulle istituzioni sanitarie e socio-sanitarie di ispirazione cristiana» di CERISMAS (Centro di Ricerche e Studi in Management Sanitario) ha rilevato la presenza, nel 2016, di 91 strutture di ricovero (8% del totale) operanti in 16 regioni e 43 province, tra cui 2 policlinici universitari, 15 IRCCS e 24 ospedali classificati.
 
Tra le 91 strutture, alcune sono di grandi dimensioni (12 superano i 300 posti letto) e numerose altre sono concettualmente riconducibili a un medesimo «gruppo di aziende» per effetto dell'appartenenza allo stesso ordine religioso. Con circa 16.000 posti letto e 681.000 ricoveri, la sanità religiosa eroga il 7,7% dei ricoveri ospedalieri, contro il 73,6% delle strutture pubbliche e il 18,7% di quelle private non religiose. Il suo peso relativo sale al 16% con specifico riferimento ai ricoveri ospedalieri per riabilitazione.
 
Quanto all’attività territoriale, i dati ISTAT sui presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari al 31/12/2015 rivelano un peso relativo ancora superiore: il 13% dei posti letto complessivi a livello nazionale è ascrivibile a enti religiosi ex L. 222/1985 e un altro 43% a enti non-profit una quota dei quali, pur non rientrando nella definizione giuridica di ente religioso di cui al punto precedente, può presumibilmente considerarsi «di ispirazione cristiana».
 
Già nella sola Lombardia, del resto, sono direttamente ascrivibili alla sanità religiosa 433 strutture e servizi territoriali (18% del totale) di assistenza residenziale, semiresidenziale e domiciliare, con un numero particolarmente elevato di RSA (147, pari al 21% del totale), ma con un peso relativo ancora maggiore nel caso specifico della residenzialità psichiatrica (25%), nonché per centri di riabilitazione ambulatoriali (49%), centri per minori (27%), residenze sanitarie per disabili (29%). Sulle RSA lombarde, l’Osservatorio ha svolto nel 2018 uno specifico approfondimento all’interno di un progetto teso a indagare diffusione, caratteristiche ed effetti delle scelte di esternalizzazione (cfr. Report Sanità di ispirazione religiosa: quinta edizione, pag. 13 e successive, scaricabile al link http://www.cerismas.com/web/index.php/tavolo-enti-religiosi), rilevando similitudini e differenze tra le RSA di ispirazione religiosa e quelle pubbliche, private for-profit, o private non-profit di ispirazione laica.

Ciò nonostante, i dati mostrano una forte regressione della sanità religiosa, in termini sia di strutture attive sia di volumi di produzione, almeno in ambito ospedaliero. Dal 2000, il sistema degli ospedali religiosi ha perso circa 4100 posti letto, ossia un quinto del totale; numerose strutture, anche con nomi blasonati, sono uscite dall’orbita delle iniziative ecclesiali acquisendo una nuova collocazione nell’ambito della sanità privata non religiosa. Nel contempo, le strutture rimaste hanno progressivamente visto assottigliarsi il proprio peso relativo. Una volta depurata dall'effetto di chiusure e alienazioni, la contrazione è stata relativamente contenuta nell'attività per acuti; molto più significativa nella riabilitazione (dal 21,0 dei dimessi nel 2003 al 16,4% nel 2016) e nella lungodegenza (dal 12,0 al 6,1%).
 
Nel frattempo, il peso relativo del privato non religioso è cresciuto dal 13,7 al 18,7%. Tra le 29 RSA lombarde di ispirazione cristiana che hanno partecipato allo studio sull’esternalizzazione, del resto, 4 (14%) indicano che il risultato della gestione caratteristica degli ultimi cinque anni è stato «per lo più negativo» e altre 4 «sempre negativo»; significativamente, risultati «sempre negativi» vengono segnalati solo da una delle 57 nonprofit di ispirazione laica e da nessuna RSA pubblica o privata for profit. Le RSA di ispirazione religiosa sembrano inoltre aver tratto minori benefici dall’esternalizzazione rispetto non solo a quelle private for profit, ma anche a quelle pubbliche.

Non mancano, d’altra parte, istituzioni religiose che hanno avuto la capacità di reagire, valorizzando i propri elementi distintivi e la propria identità, avviando coraggiosi percorsi di cambiamento strategico e organizzativo e riuscendo così a migliorare strutture, processi e performance. Mediamente, del resto, gli indicatori comunemente utilizzati per esprimere efficienza, attrattività, complessità, appropriatezza ed esito dell’attività ospedaliera si collocano sistematicamente, per la sanità religiosa, in posizione intermedia tra pubblico e privato for-profit, con valori tipicamente più favorevoli per le strutture più grandi.

In questo contesto, particolare rilievo assumono le opportunità, i rischi e i fattori critici di successo che scaturiscono dalle recenti norme in tema di «Codice del Terzo settore» (D.lgs. 117/2017) e di «Revisione della disciplina in materia di impresa sociale» (D.lgs. 112/2017), emanate in attuazione della legge 106/2016 recante «delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale». Il tema è stato approfondito in occasione del Workshop annuale sulla sanità di ispirazione cristiana, organizzato da CERISMAS e svoltosi il 27/9/2019.
 
Al Workshop sono intervenuti, oltre i sottoscritti ed ai ricercatori CERISMAS, i docenti dell’Università Cattolica (prof. Andrea Bettetini, ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico; prof. Antonio Cetra, ordinario di diritto commerciale; prof. Adriano Propersi, docente a contratto di Economia delle aziende non profit; dott. Andrea Quattrocchi, ricercatore di diritto tributario) e di altre università (prof. Angelo Chianale, ordinario di diritto privato, Università di Torino, notaio in Torino; dott. Alessandro Perego, ricercatore di diritto ecclesiastico, Università di Padova), altri esperti del settore (dott. Giuseppe Gallizia, notaio in Milano e dott. Maurizio Setti, dottore commercialista), nonché alcuni rappresentanti degli enti sanitari e socio-sanitari di ispirazione cristiana che aderiscono al «tavolo di lavoro» promosso da Cerismas (dott. Luigi Corbella, coordinatore gruppo terzo settore ARIS; dott. Walter Pangherz, responsabile servizio giuridico fiscale, Fondazione Don Gnocchi; dott. Marcellino Valerio, direttore amministrativo, Fondazione Poliambulanza).

Complessivamente, il Workshop ha voluto contribuire a chiarire gli snodi fondamentali della riforma e ad accompagnare le realtà della sanità religiosa nelle complesse scelte organizzative e strategiche a cui esse sono sollecitate dall’entrata in vigore del Codice. Quest’ultimo, infatti, si caratterizza per l’opera – per alcuni versi, si è rilevato, perfettibile – di sistemazione e revisione della disciplina premiale dedicata ai soggetti che, costituiti nelle forme giuridiche previste e svolgenti le attività di interesse generale che il Codice ha indicato, sceglieranno di assumere la qualifica di Enti del Terzo Settore (ETS). Il nuovo regime si caratterizza proprio, ed innanzitutto, per l’adesione su base volontaria, dato che la sua applicazione presuppone la richiesta di iscrizione al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, di prossima istituzione.

All’opzione in favore dell’applicazione della nuova disciplina conseguiranno, da un lato, una serie di agevolazioni ed incentivi sul piano fiscale, e dall’altro la sottoposizione ad una disciplina civilistica più analitica ‒ sul piano della governance interna ‒ rispetto a quella «comune» dettata dal Codice civile, oltre che a maggiori controlli di tipo pubblicistico. Al di fuori della cerchia degli ETS, rimarrà in vita un mondo altrettanto variegato di enti che potranno continuare ad operare sotto le norme civilistiche e fiscali previgenti, pur dovendo rinunciare, ad esempio, ai benefici del regime Onlus del 1997, destinato ad uscir di scena.

Anche il rinnovato istituto dell’Impresa Sociale si presenta con caratteristiche simili, ed offre – a fronte dell’applicazione dell’apposita disciplina ‒ la possibilità di svolgere in forma di impresa attività di interesse generale beneficiando di un regime fiscale di favore: le agevolazioni riguardano in primo luogo il reinvestimento nell’attività svolta degli utili dell’impresa, essenziali per enti che operano in un settore tecnologicamente complesso e dinamico, ma che non possono far conto su conferimenti di capitale da parte né di soggetti pubblici né di investitori privati.

È evidente, in questo quadro, che la scelta in merito all’opzione per la nuova disciplina del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale costituirà un punto di svolta cruciale per il destino futuro di ciascun ente. Nella medesima posizione si trovano anche gli enti religiosi, ai quali il Codice ed il decreto sull’Impresa Sociale riservano un’ulteriore possibilità: quella di limitare l’applicazione delle nuove norme ad un «ramo» della propria organizzazione, mediante il quale svolgere le attività di interesse generale. Si è voluto così consentire ad enti dotati di accentuate specificità ‒ relative tanto al fine di religione o di culto, quanto alla peculiare struttura organizzativa ‒ di beneficiare degli effetti incentivanti della riforma coerentemente con le proprie caratteristiche originarie.
Nel corso del Workshop, un’analisi specifica è stata dedicata ai requisiti per la costituzione di un “ramo-ETS” (o “ramo-IS”).
 
In particolare si è considerato quello tra i requisiti che appare al contempo dotato delle caratteristiche più dubbie e delle conseguenze pratiche più pregnanti, vale a dire la costituzione di un “patrimonio destinato” (art. 4, co. 3 CTS, art. 1, co. 3 D.lgs. 112/2017). Questa figura, secondo alcuni commentatori, corrisponderebbe ad una porzione del patrimonio dell’ente vincolato alla soddisfazione dei creditori del “ramo” e non aggredibile dagli altri, sul modello dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare” ammessi dal Codice civile in materia di società di capitali. La tesi, tuttavia, è stata criticata evidenziando come proprio l’istituto da ultimo richiamato abbia trovato una diffusione pressoché nulla anche in ambito societario, dati i suoi costi elevati. L’opinione contraria, che sembra sin qui aver avuto maggiore diffusione, afferma invece che l’individuazione del patrimonio destinato al ramo avrebbe solo un effetto interno ed organizzativo, come indicazione del valore massimo entro cui orientare la gestione dell’attività.

Il dibattito si è orientato in seguito su un altro importante nucleo tematico, concernente la disciplina tributaria del Terzo Settore. È questo uno degli aspetti più complessi e delicati della riforma, che dovrà essere oggetto di scrupolose valutazioni da parte degli enti interessati.

Il profilo forse più rilevante dal punto di vista strategico è quello relativo alle imposte dirette, sotto cui rileva prevalentemente la distinzione tra ETS (o rami) commerciali e non commerciali. A queste due categorie corrispondono infatti due regimi ben distinti e con differente grado di attrattiva. L’attenzione dovrà rivolgersi, in questo caso, anche alle peculiari modalità di attribuzione della qualificazione di commercialità, che seguono logiche nuove ed originali rispetto ai regimi sin qui operanti (ed in particolare rispetto alla distinzione tra enti commerciali e non commerciali ai sensi del TUIR) e che – come i relatori hanno illustrato ‒ determinano esiti variabili nel tempo e poco prevedibili.

Sempre nell’ambito della disciplina fiscale, si sono affrontate le questioni legate alla disciplina IMU e prospettive di recupero dell’ICI alla luce della più recente giurisprudenza europea.

Dalla “tavola rotonda” finale tra rappresentanti di enti del settore è emersa infine la necessità di affrontare alcune incoerenze tra la nuova disciplina del Terzo Settore e le specificità del settore sanitario. La sanità, infatti, è un settore caratterizzato da elevati livelli di professionalità, dinamicità e competizione. Per sua natura, d’altra parte, il Codice del Terzo Settore propone una disciplina comune per soggetti che svolgono attività profondamente diverse tra loro. Il dibattito ha evidenziato che, nella stesura della norma, le peculiari esigenze del settore sanitario sono state tenute solo parzialmente in considerazione.
 
Per esempio, si tengono in considerazione le specificità degli enti sanitari laddove si stabilisce (art. 8 c. 3 D.lgs. 117/2017) che «si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili […] la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi», ma si fanno salve «comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale di cui all'articolo 5, comma 1, lettere b) [interventi e prestazioni sanitarie], g) [formazione universitaria e post-universitaria] e h) [ricerca scientifica di particolare interesse sociale]». D’altra parte, resta però il vincolo, potenzialmente critico per gli enti sanitari che vogliano attrarre e trattenere le migliori professionalità, per cui (art. 16) «la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno ad otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda».

Questi ed altri aspetti di complessità “tecnica” sono stati illustrati dai relatori in una prospettiva necessariamente multidisciplinare, che ha fedelmente riprodotto il dialogo tra discipline e professioni che caratterizza l’esperienza quotidiana del Terzo Settore. Senza trascurare gli aspetti identitari, che contraddistinguono in modo determinante realtà come gli enti religiosi, nei quali il profilo vocazionale e carismatico segna fortemente non solo le dinamiche interne ma anche il modo di porsi verso i beneficiari dei servizi e verso il pubblico in generale. Da questo punto di vista, qualche dubbio è stato sollevato, ad esempio, sulla piena coerenza della qualificazione come Impresa Sociale rispetto alla particolare natura e finalità ultima della sanità religiosa.
 
In conclusione, dal convegno emergono dunque tre specifici suggerimenti per le istituzioni sanitarie e socio-sanitarie di istituzione cristiana: esplicitare, unitamente agli altri enti del terzo settore, il fabbisogno di chiarimenti sul piano interpretativo, per poter correttamente valutare le soluzioni tecniche proposte dalla norma e definire il proprio posizionamento nel sistema; riflettere sulla coerenza tra le soluzioni tecniche proposte dalla norma e la propria specifica natura e finalità; sviluppare e avanzare proposte emendative che possano rendere la norma più coerente con le specificità di un settore nel contempo importante e peculiare quale quello della sanità. 
 
Eugenio Anessi Pessina
Professore ordinario di Economia aziendale, Università cattolica del Sacro Cuore; Direttore CERISMAS
 
Alessandro D’Adda
Direttore del Dipartimento di Diritto privato e pubblico dell’Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore

12 dicembre 2019
© Riproduzione riservata


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