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Care Regioni volete il federalismo? E allora siate realmente federaliste

di Ivan Cavicchi

Voi che chiedete di “lasciarvi fare” e teorizzate le “mani libere” siete talmente lontani da un pensiero federale (soprattutto quelli che parlano veneto) che, in realtà, mi fate paura, perché alla fine, da finti federalisti quali siete, guardate solo al potere e non alle persone. Per definizione siete dis-umani. Mentre per fare della buona sanità e della buona medicina essere umani è un prerequisito fondamentale

27 SET - Nell’articolo di pochi giorni fa (Qs 24 settembre 2018) ho sostenuto quattro tesi:
- la sanità è, per tante ragione “indevolvibile”, essa andrebbe stralciata da qualsiasi provvedimento, a partire da quello imminente, del ministro Stefani, volto a trasferire materie costituzionalmente previste nella legislazione concorrente a quella esclusiva delle regioni,
- dietro all’idea, per me sbagliata di devoluzione, vi è un innegabile problema di governo, che dobbiamo risolvere, in qualche modo, recuperando, prima di tutto, gli effetti distorsivi che la riforma del titolo V ha avuto sul sistema pubblico,
- siccome gran parte dei problemi di governo legati al titolo v per me riguardano quello che definirei un “federalismo taroccato” ritengo che  un governo della sanità autenticamente federale possa risolvere gran parte dei problemi avanzati dalle regioni senza per questo sovvertire il sistema dato,
- la devoluzione della sanità alle regioni non risolve i problemi storici di governo delle regioni al contrario come qualsiasi scorciatoia, li aggraverà ma a spese purtroppo dell’interesse generale.
 
In questo articolo mi propongo quindi di iniziare a spiegare:
- prima di tutto il paradosso del titolo v cioè perché alla crescita di poteri decisa nel 2001 non è corrisposta da parte delle regioni una accresciuta capacità di governo,
- la mia idea di governo federale della sanità,
- come siamo finiti alla devoluzione della sanità.
 
Il paradosso del potere che non governa
Il grave errore, fatto da coloro che, per reggere all’urto della domanda di federalismo della Lega nel 2001 (DS), hanno riformato il titolo V è stato ritenere che il governo federale della sanità fosse solo un problema di poteri.  Lo stesso per i propugnatori del federalismo (Lega).
 
Lo stesso errore, ma in forma più radicale, lo si sta facendo con la devoluzione della sanità, cioè pensare che basti, per affermare una forma federale del governo della sanità, andare oltre la legislazione concorrente quindi oltre lo Stato. Anche in questo caso la questione è ridotta, in forma esasperata, a solo questione di poteri.
 
In realtà per affermare una corretta forma di governo federale della sanità, il trasferimento dei poteri è necessario ma non è la condizione sufficiente.
 
La prima cosa che serve è una idea di governo federale “altra” rispetto a quella di un governo centrale ad amministrazione decentrata. Quale è la differenza? Mentre il primo è un governo condiviso con la comunità sociale di riferimento, quindi un governo partecipato, il secondo è un governo delegato solo agli amministratori.
 
Il federalismo vero decentra i poteri ma solo per condividerli con la comunità di riferimento, considerando comunità, nel caso della sanità, tanto i cittadini che gli operatori. Quindi le persone.  Decentrare poteri e continuare a considerare la comunità non un soggetto di governo ma un oggetto da amministrare, priva il federalismo del suo significato politico più importante.
 
In questi anni le regioni, per ragioni amministrative, hanno torchiato (amministrato) tanto i cittadini che gli operatori ma in nessun caso, neanche nel Veneto, i soggetti sociali e professionali sono stati chiamati a decidere insieme agli amministratori.
 
Il Veneto, pur dicendosi federale, ha governato la sanità senza i veneti esattamente come un governo senza i cittadini Vi assicuro che i veneti, in particolar modo gli operatori, quelli che sono costretti a dimettersi perché privi del necessario per ben operare, avrebbero avuto molte cose da dire.
 
Capacità e qualità
Oltre ad una idea di governo federale (vorrei tanto conoscere quella del Veneto ammesso che ne abbia una) ci vogliono delle capacità e delle qualità, cioè chi governa e chi amministra non può essere considerato una variabile indipendente dalla forma di governo. Per guidare e gestire un governo partecipato ci vogliono capacità e qualità che in un governo amministrante non servono e viceversa.
 
Con ciò non voglio dire che per fare un governo federale della sanità dobbiamo cambiare governatori assessori e direttori generali (non sarebbe realistico anche perché una loro versione federalista non esiste), ma che bisogna formare una classe dirigente adeguata, si.
 
Questo, se penso alle grandi regioni, Veneto in testa, non mi sembra che sia stato fatto. Al contrario, in questi anni, ho visto solo amministratori al potere, boiardi che costituivano una specie di aristocrazia tecnocratica, sempre gli stessi, per ogni stagione, intercambiabili nei ruoli e nelle funzioni anche a scala nazionale.
 
Ma c’è di più un governo aperto alle comunità si deve porre il problema di formare la comunità al governo. Per coinvolgere efficacemente i soggetti sociali e quelli professionali è necessario definire e organizzare il loro expertise attraverso certi strumenti prima di informazione poi di selezione e infine di partecipazione. Ma se c’è un dato incontrovertibile è che, dalla gestione del nostro sistema, è sparita, ma fin dai tempi della riforma madre, ogni funzione informazionale rivolta ad una comunità ed ogni forma di partecipazione di governo degna di questo nome.
 
Il colpo di grazia è venuto con le aziende che di federale, cioè di governo partecipato, non hanno proprio niente. Anzi la loro forma manifatturiera è la massima espressione del verticismo amministrativo di cui soprattutto le regioni sono intrise. Le regioni non hanno chiesto di certo alle comunità, se chiudere gli ospedali o tagliare i servizi o fare l’azienda zero. O come fare i piani di rientro. In questi anni le politiche delle regioni sono state in un modo o nell’altro contro le comunità. Quindi decisamente anti-federaliste.
 
Un’altra idea di sanità
Oltre ad una idea di governo federale e alle capacità e alle qualità giuste, per avere un governo della sanità con una forma federale, ci vuole anche un’altra idea di sanità. Non si può cambiare forma di governo senza dedurre da essa, le caratteristiche di una sanità diversa, cioè “altra” rispetto a quella amministrata sino ad ora con il decentramento amministrativo.
 
Se la comunità ha un senso federale, ce l’ha perché dalle sue caratteristiche, dalle sue necessità, dai suoi bisogni, si devono dedurre quelle dei servizi, delle prassi, metodologie, delle organizzazioni ad hoc. La novità del governo federale è essere un governo adeguato ad una comunità ma per essere adeguato esso deve avere prima di ogni cosa un sistema di servizi adeguato alle necessità comunitarie tanto dei cittadini che degli operatori. Se ci si limita ad avere solo maggiori poteri si perde la sfida dell’adeguatezza e non cambia sostanzialmente niente.
 
E qui che ci si gioca il rapporto tra generale e particolare tra comune e diverso tra uniforme e discreto. Cioè tra norme nazionali e norme locali. Cioè sulla base di norme universali si tratta di definire modalità locali. Sulle modalità comanda la comunità non il ministero. E’ la comunità insieme all’assessore che decide il modo di essere dell’ospedale, del distretto, della medicina generale, non il ministero.
 
Altrimenti, se il sistema sanitario restasse invariante (stessi ospedali, stessi servizi, stesse organizzazioni, stesso distretto, ecc.) non cambierebbe niente e il governo che si definisce federale sarebbe taroccato cioè finto. In questo caso sarà il sistema sanitario reale dato che governerà il governo se non altro per forza di inerzia. Ed è quello che è successo con il titolo V con l’aggravante che le uniche cose fatte dalle regioni sono, rispetto alla comunità, quindi cittadini e operatori, tutte peggiorative.
 
Anche in questo caso vorrei tanto sapere dal Veneto e dalle altre regioni che idea di sistema sanitario hanno in testa. Ma il Veneto e le altre regioni nel chiedere per l’ennesima volta più poteri non si preoccupano mai, dico mai, di chiarire per cosa. Una volta che vi siete presi tutto il potere del mondo ci spiegate per favore cosa volete farne? O è pretenzioso chiedervelo?
 
Il paradosso del potere senza autonomia
L’altro grave errore fatto da coloro che nel 2001 hanno devoluto poteri alle regioni è stato quello di limitare fortemente l’autonomia di queste, quello che in Canadà, che ricordo ha un sistema sanitario federale, viene chiamato spending power. Cioè l’uso del potere di spesa per condizionare i comportamenti soprattutto finanziari dei governi regionali.
 
Il riferimento esplicito è ai numerosi patti per la salute che, di anno in anno, sono diventati di fatto uno scambio: un po di soldi ma in cambio gradi sempre maggiori di dipendenza delle regioni nei confronti del governo centrale.
 
A che serve dare più poteri alle regioni se poi questi poteri sono vanificati dai limiti economici imposti dal governo centrale? Oggi se siamo arrivati alla devoluzione della sanità è perché le regioni non riescono più a reggere lo spending power. Il loro tentativo folle che personalmente definisco autarchico è di risolvere il problema facendo fuori lo spending power.
 
Ma perché da circa 20 anni le regioni sono sotto botta al punto da perdere la loro autonomia? La risposta è semplice ed è sotto i nostri occhi: ormai le questioni riconducibili alla sostenibilità dei sistemi non tollerano più il rifinanziamento dello status quo cioè di un sistema di servizi pieno di anti-economie di diseconomie e di sprechi e per di più inadeguato nei confronti di una società diversa dal passato.
 
La natura incrementale della spesa mette in crisi due criteri: quello della spesa storica e quello del piè di lista. Essa impone che la spesa sia governata non semplicemente amministrata. Cioè richiede che le assegnazioni siano compensate con dei recuperi, cioè che il cammello in tempo di crisi, si nutra della sua gobba. Il de-finanziamento, per quanto odioso fosse, non era altro che una allocazione di risorse condizionata da ipotesi di risparmio sulle diseconomie.
 
E’ del tutto evidente che nel momento in cui le regioni non riuscivano a rimuovere le loro diseconomie, il de-finanziamento diventava automaticamente sotto-finanziamento cioè un taglio lineare al Fsn programmato in frazioni annuali. 
 
Ben poche regioni sono riuscite a eliminare alcune diseconomie non tutte e per farlo hanno imposto duri sacrifici prima di tutto alla gente e quindi ai servizi e agli operatori. Questo conferma che le regioni, anche quelle brave, pur con tanti poteri, al massimo sanno amministrare, cioè cavare sangue alle rape, ma non sanno riformare un bel niente.
 
Purtroppo, per loro e per noi, la battaglia contro le diseconomie non si fa sul piano solo amministrativo ma soprattutto sul piano politico delle riforme. Dietro ad una diseconomia c’è sempre una realtà da cambiare. Gli sprechi veri non sono mai dati amministrativi ma sono sempre dati disfunzionali da contestualizzare nel sistema dato.
 
Tutte le regioni hanno tentato la carta dell’appropriatezza ma, per quanto appropriati siano i loro servizi, se i loro modelli funzionali restano vecchi cioè mai riformati da oltre mezzo secolo, essi saranno, loro malgrado, fatalmente antieconomici.
 
L’ospedale in quanto tale è antieconomico, anche il più appropriato, perché rispetto ai bisogni di quella famosa comunità di riferimento, resta prima di tutto culturalmente inadeguato. So di amici miei, bravi e onesti direttori generali, votati al bene pubblico, che in ospedali anche difficili come i policlinici, hanno risparmiato una barca di soldi limitandosi a lavorare sui “beni e servizi”.
 
A costoro va la mia ammirazione. Ma quando parlo di ospedale non parlo solo di beni e servizi, di acquisti, di strutture, di spazi, ma di prassi, di metodologie di approcci, di culture, di relazioni, di contenzioso legale, di comportamenti opportunistici. La gobba del cammello o il corpo sommerso del proverbiale iceberg, è più grande di quello che si pensa.
 
Non illudetevi
In sintesi: la perdita dell’autonomia delle regioni va ricondotta a parte lo spending power ad una loro incapacità di fondo a governare due cose:
- il cambiamento sociale,
- la spesa come processo.
 
Se le regioni in queste anni, grazie ai poteri dati loro dal titolo V, rispetto al cambiamento sociale avessero fatto più riforme e attraverso tali riforme avessero governato meglio la spesa, oggi non ci troveremmo a discutere di devoluzione.
 
Tuttavia care regioni secessioniste non illudetevi. Potrete avere tutti i poteri del mondo ma i problemi di sostenibilità restano tutti e i conti con le “vostre” anti-economie, con le “vostre” diseconomie, e con i “vostri” sprechi, dovete farli. Anzi una volta che vi sarete preso tutto, dovete farli più di prima perché la devoluzione significa l’autosufficienza finanziaria dei vostri sistemi sanitari. “Vostri” perché è tutta roba vostra dal momento che questi problemi non sono piovuti dal cielo. Siete voi che negli anni li avete creati.
 
Il mio timore è che, pur abbottati di poteri, senza un pensiero riformatore e senza un vero governo federale, farete solo carne da porco come se foste eternamente in piano di rientro.
 
Voi che chiedete di “lasciarvi fare” e teorizzate le “mani libere” siete talmente lontani da un pensiero federale (soprattutto quelli che parlano veneto) che, in realtà, mi fate paura, perché alla fine, da finti federalisti quale siete, guardate solo al potere e non alle persone. Per definizione siete dis-umani. Mentre per fare della buona sanità e della buona medicina essere umani è un prerequisito fondamentale.
 
Per ora mi fermo qui, ma il discorso continua. Vi sfido ad essere davvero dei federalisti.
 
Sul piano squisitamente culturale e politico, personalmente, a farmi prendere in giro, da questi falsi salvatori della patria, mi dispiace, ma non ci sto. Gli altri facciano quello che credono.
 
Ivan Cavicchi

27 settembre 2018
© Riproduzione riservata


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