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La salute mentale e i tagli alla sanità. Ecco perché si rischia il naufragio di un intero settore

di Fabrizio Starace

Il nostro settore della Salute mentale è una reale anomalia positiva nel panorama dei Paesi occidentali avanzati. Ma oggi questo patrimonio è messo seriamente a rischio dalla politica persistente (e che sembra confermata anche nel 2016) dei tagli lineari, ovvero nel ridimensionamento a monte dei finanziamenti alla sanità pubblica

28 SET - La prospettiva di nuovi, ulteriori, tagli alla Sanità getta non pochi dubbi sulla sostenibilità del sistema di cura per la Salute mentale nel nostro Paese. Se il Servizio sanitario italiano è tra i più virtuosi al mondo, quando si considerano i risultati ottenuti a fronte della spesa, che è stabilmente inferiore alla media dei paesi Ocse, il settore della Salute mentale, cui viene destinato il 3-3.5% del Fondo sanitario, è una reale anomalia positiva nel panorama dei Paesi occidentali avanzati.
 
Con il numero dei posti letto più basso dei Paesi Ocse, una frequenza di trattamenti obbligatori che è anche 20-30 volte inferiore a quella di molti Paesi anglosassoni o scandinavi, l’Italia ha mostrato da lungo tempo che è possibile fare a meno degli Ospedali psichiatrici (più recentemente anche degli Ospedali psichiatrici giudiziari) ponendo fine ai trattamenti inumani e degradanti che in quei luoghi si perpetravano. E’ possibile, cioè, affrontare i disturbi psichiatrici sul territorio, nei luoghi di vita, attraverso una rete capillare di servizi di Salute mentale di comunità, attraverso una capacità di contatto per oltre 2 mila persone ogni 100 mila abitanti in età adulta e di presa in carico per almeno la metà di esse, evitando contestualmente l’istituzionalizzazione della sofferenza. Inoltre, con l’azione combinata e coordinata d’interventi sanitari e sociali, con la reale intersettorialità della Salute mentale nelle politiche dell’istruzione, del lavoro, della casa, dell’inclusione comunitaria, l’Italia ha dato corpo e sostanza ai principi di cittadinanza e di non discriminazione invocati dalle Carte fondamentali Italiana, Europea, delle Nazioni Unite.
 
Occorre dare atto, naturalmente, delle significative differenze inter-regionali. Tuttavia le criticità, laddove si manifestano, non riguardano in modo specifico ed esclusivo la salute mentale ma impattano, seppur con modalità ed intensità diversa, su tutti i settori della Sanità essendo esse stesse il sintomo di una più generale sofferenza dei sistemi di welfare. Ciononostante, questo Sistema di Cura e inclusione sociale costituisce un vero e proprio laboratorio di comunità a cielo aperto cui Organismi internazionali e altri Paesi guardano come modello per orientare ed implementare azioni riformatrici locali.
 
Purtroppo oggi tutto questo viene messo in seria discussione
Proprio quando la sanità si avvia con maggior decisione sulla strada della de-ospedalizzazione, della prossimità territoriale delle cure, della domiciliarità degli interventi, il settore della salute mentale - che più di altri ha tradotto questi principi in pratica quotidiana negli ultimi 35 anni - viene messo in crisi dall’annuncio di tagli lineari e generalizzati. Non si è spenta l’eco del DL 78/2015 sugli Enti locali e del taglio di 2 mld e 350 milioni alla sanità per il 2015, che giungono infatti le parole del presidente del Consiglio che ha fissato l’asticella del fondo sanitario 2016 a 111 miliardi, quindi circa 2 miliardi in meno rispetto agli stanziamenti previsti dallo stesso decreto Enti Locali di solo due mesi fa. Le conseguenze di un’applicazione indiscriminata di queste scelte sul settore già gravemente sottofinanziato della Salute mentale, potrebbero essere devastanti. Le parole d’ordine per il raggiungimento dell’obiettivo di risparmio sono “lotta agli sprechi” attraverso recupero di “appropriatezza” e “riduzione della spesa per beni e servizi”. Vediamo come potranno essere declinate in Salute mentale.
 
Recupero di appropriatezza e salute mentale
Sui tagli 2015 ci limitiamo ad osservare che tra le prestazioni elencate nel Documento  prodotto dal ministero non vi sono prestazioni della salute mentale. Né potrebbe essere diversamente, essendo l’elenco delle prestazioni del Ssn ancorato ad una logica fondata sulla bipolarità ospedale-ambulatorio, senza alcuna considerazione della complessità delle attività e degli interventi che caratterizzano la presa in carico territoriale. Sul versante delle prestazioni ambulatoriali, basti pensare che nel tariffario nazionale (DM 18.10.12) le prestazioni per la Salute mentale sono genericamente classificate come colloquio psicologico o psichiatrico e visita psichiatrica di controllo, alle quali si aggiungono la psicoterapia (individuale, familiare o di gruppo) e financo l’ipnoterapia.
 
Il nuovo schema dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), in via di approvazione da parte del Governo, identifica 17 tipi di attività nei vari ambiti di cura (dall’individuazione precoce e proattiva dei disturbi” a “interventi psicoeducativi rivolti alla persona e alla famiglia”, passando per i vari interventi clinici, psicologici, psicoeducativi, psicosociali)  attraverso la presa in carico multidisciplinare e lo svolgimento di un programma terapeutico individualizzato.
 
Il Sistema informativo per la Salute mentale prevede 26 attività fondamentali ed ulteriori 8 (macroattività) che non vengono rilevate, ancorché centrali nelle attività di governo clinico della Salute mentale. Del resto, come non dare atto dell’impegno che i servizi producono per le diversificate attività cliniche rivolte al paziente e alla famiglia, per l’integrazione tra sociale e sanitario, per attività di riabilitazione o di tipo socio-assistenziale?  Non si tratta certo di impegno comprimibile nei 15 minuti riservati in media ad una visita specialistica in altre branche della medicina. E che dire della rete di comunicazione, formazione e lavoro congiunto, formalizzazione di protocolli di intervento, che deve precedere, accompagnare e seguire la decisione di un Trattamento sanitario obbligatorio? E del tempo necessario a sollecitare, negoziare, promuovere una scelta volontaria di trattamento in una persona non consenziente?
 
I servizi psichiatrici giudiziari
Sarà il caso anche di citare tutto ciò che è formalmente e rigorosamente richiesto ai Servizi - per definire con l’Autorità giudiziaria e i suoi periti, il personale dell’Amministrazione penitenziaria, i Servizi sociali degli Enti locali, i soggetti della cooperazione sociale, il Progetto terapeutico riabilitativo individualizzato di una persona con disturbi psichiatrici che ha commesso un reato. Ad oggi, tutto ciò fa parte delle funzioni complessive che vengono assolte da un Servizio di Salute mentale territoriale e non possono essere semplificate nelle prestazioni previste dal tariffario nazionale. Accanto alla anacronistica semplificazione delle “prestazioni psichiatriche” contenute nel tariffario nazionale, qualsiasi operazione di recupero di appropriatezza dovrà necessariamente tener conto della valorizzazione economica delle prestazioni stesse.
 
In questo ambito la sotto-valutazione delle attività per la salute mentale assume plastica configurazione. Basterà segnalare che gli interventi più frequenti – colloquio psichiatrico o psicologico – “valgono” nel tariffario nazionale neanche 20 euro, con fluttuazioni in più o in meno nelle diverse Regioni. Una ricerca condotta in un ampio campione di servizi rappresentativo della realtà nazionale aveva evidenziato per confronto – già 20 anni fa – che il costo di una visita psichiatrica diagnostica aveva un costo medio (rivalutato al 2015) di 64 euro e quello per una psicoterapia individuale di 83 euro. Una più recente ricerca ha dimostrato che un’attività assolutamente centrale per caratterizzare la territorialità del lavoro dei servizi di salute mentale - la visita domiciliare - ha un valore di almeno 63 euro e che una riunione di più operatori su un determinato caso, strumento essenziale nel lavoro di equipe e nella gestione integrata dei percorsi diagnostico terapeutici, quando valutata sulla base dei fattori produttivi effettivamente concorrenti,  assume una valorizzazione di quasi 160 euro (costi rivalutati al 2015).
Anche sul versante ospedaliero, oltre alla già citata, massiccia, operazione di de-ospedalizzazione, che ha condotto l’Italia ai valori minimi di posti letto per popolazione residente tra i Paesi Ocse, va segnalata una perdurante sotto-valutazione dell’impegno economico necessario per assicurare livelli ottimali di assistenza. Ne è rappresentazione evidente la valorizzazione del Drg di un ricovero per “psicosi”, la condizione psicopatologica potenzialmente più grave e impegnativa sul piano assistenziale.
 
Nel Dm sulla remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera per acuti (Dm 18.10.12), che costituisce riferimento anche per la Tariffa unica convenzionale, la valorizzazione per un ricovero ordinario per psicosi di durata superiore ad 1 giorno viene fissata a 1.942 Euro. Se si considera che il più recente report sulle attività di ricovero per acuti (Sdo 2014), segnala una durata di degenza media per psicosi pari a 11,7 giorni, si calcola un valore giornaliero medio del ricovero ospedaliero acuto per psicosi di 166 Euro. Questa cifra è di gran lunga inferiore a quella prevista da alcune Regioni che acquistano dalle strutture private accreditate prestazioni ospedaliere (ad es.: in regione Emilia-Romagna la tariffa giornaliera è fissata a 319 euro al giorno) e dalla quasi totalità delle Regioni per le attività residenziali extra-ospedaliere, che implicano (almeno teoricamente) un’intensità assistenziale molto più contenuta.
 
L’appropriatezza in Salute mentale
Ne deriva che il concetto di appropriatezza in Salute mentale ha bisogno di essere declinato, a regime, secondo coordinate ben più complesse di quanto consentito dagli strumenti attualmente disponibili. Una revisione degli stessi ne suggerirebbe l’aggiornamento, sulla base delle migliori evidenze disponibili, per evitare contraddizioni conseguenti ad un loro uso “meccanico”. Va tuttavia sottolineato che l’applicazione del concetto di appropriatezza va fatta a tutto tondo, non concentrandosi esclusivamente sul recupero di risorse “sprecate” per un sovra-utilizzo ingiustificato di trattamenti ma considerando anche l’impegno di risorse necessario per correggere il sotto-utilizzo di trattamenti indicati come raccomandati.
 
Ciò è particolarmente vero in Salute mentale. L’esempio più eclatante in questo senso è costruito dalla drammatica evidenza di una riduzione della speranza di vita nelle persone con disturbo psichiatrico (pari a circa 20 anni) per la maggiore frequenza, spesso iatrogena  di sindrome dismetabolica, di stili di vita non salutari (sovrappeso, fumo, sedentarietà), di impedimenti all’accesso ai servizi sanitari. Si tratta, con tutta evidenza, di cause evitabili per le quali esistono appropriati interventi correttivi, che tuttavia non vengono applicati in oltre la metà dei casi per mancanza di tempo o di fondi, per sottovalutazione del problema, per mancanza di coordinamento con la medicina generale, per la più generale necessità di maggiore impegno motivazionale nei confronti di persone con disturbi psichiatrici. Un recupero di appropriatezza imporrebbe maggiore attenzione verso la salute fisica nei Servizi per la Salute Mentale, sostenuta da adeguati investimenti per incrementare il tempo/operatore disponibile nei servizi e per praticare le indagini laboratoristiche e strumentali necessarie.
 
Il paziente morto a Torino in Tso
E ancora, richiamando il drammatico episodio di Torino, in cui un paziente sottoposto a Tso è morto, uno dei rilievi riscontrati dagli ispettori del ministero, inviati a verificare l’operato dei sanitari intervenuti, riguarda il mancato contatto del Servizio col paziente il quale aveva interrotto la terapia da diversi mesi. Nonostante le raccomandazioni disponibili indichino la necessità di un “trattamento continuativo in fase di mantenimento” e di “contatti clinici regolari nel periodo seguente l’interruzione del trattamento”, tali prassi non costituiscono la norma. Un recupero di appropriatezza imporrebbe maggiore attenzione ai percorsi terapeutici interrotti non consensualmente ed un atteggiamento proattivo dei Servizi. Tutto ciò, una volta adottate le misure organizzative opportune, impone inevitabilmente costi maggiori, almeno nel breve termine, e l'impiego dell'unica tecnologia di rilievo nelle pratiche di Salute mentale: operatori motivati, competenti, empatici. 
 
In definitiva, come abbiamo provato a dimostrare, ricercare l’appropriatezza in Salute mentale ha una dimensione molto più ampia del contenimento dell’inappropriatezza. Soprattutto preme sottolineare che non è etico interpretare l’appropriatezza a senso unico (ossia limitando l’attenzione alle sole condizioni di uso non giustificato dei trattamenti) ma essa, in salute mentale, deve riguardare soprattutto l’applicazione estensiva di interventi di provata efficacia, oggi limitata dalle gravi condizioni di sotto-finanziamento e da rigidità amministrativo-gestionali che privilegiano l’uso di risorse preformate. Gli obiettivi di efficienza delineati nel Dl Enti locali e i conseguenti tagli da “recupero di appropriatezza” non sembrerebbero pertanto applicabili in salute mentale, ove al contrario occorrono investimenti significativi.
 
Il taglio ai Beni e servizi in Salute mentale
Nelle intenzioni dichiarate l’ulteriore taglio che si prospetta per il 2016, potrà essere ottenuto da una razionalizzazione della spesa per “beni e servizi”. L’obiettivo è ridurre la variabilità determinata dalle migliaia di stazioni appaltanti (ed evitare il famoso paradosso della siringa, i cui costi sembra che lievitino da una Regione all’altra, con un gradiente sud-nord).
 
In questo caso, la Salute mentale è fortemente coinvolta: l’acquisizione di beni e servizi riguarda infatti ben più del 50% della spesa complessiva del settore (fino a superare il 70%). E tuttavia, se si scompone questa voce generale, si osserva che la gran parte della spesa è attribuibile all’acquisto di prestazioni ospedaliere, residenziali sanitarie e di specialistica ambulatoriale dalla Sanità privata accreditata e di servizi ed attività residenziali, semi-residenziali e territoriali (di area sanitaria e sociosanitaria) dal privato sociale. Pur nella variegata combinazione di modalità adottata nelle singole Regioni, si ha l’impressione che sia possibile individuare ampi varchi per un recupero di efficienza.
Per quanto concerne, infine, le prestazioni ospedaliere, residenziali, sanitarie e di specialistica ambulatoriale dalla Sanità privata accreditata, un primo elemento di rilievo attiene alle caratteristiche dell’accordo che ciascuna Regione stipula con l’Aiop, in genere con valenza pluriennale, nel quale si definisce un budget (“tetto massimo raggiungibile”) per ciascuna struttura, commisurandolo in genere alla capacità di offerta (posti-letto) della struttura stessa. I principali nodi critici che tale assetto comporta vengono sintetizzati di seguito.
 
Le difficoltà della programmazione pubblico-privato nel modello in convenzione
La definizione dell’accordo in sede regionale, e con valenza pluriennale, limita di fatto l’attività di programmazione e la diversificazione dell’offerta a livello locale, specie quando sia necessario affrontare contingenze economiche che impongono maggiore efficienza e flessibilità dell’offerta.
In concreto, l’adozione di modalità assistenziali coerenti con una riduzione dell’ospedalizzazione e della residenzialità sanitaria, orientate verso forme più flessibili e personalizzate di residenzialità sociosanitaria o sostegno alla domiciliarizzazione degli interventi, non possono essere realizzate in partnership con il soggetto privato accreditato, che per sua natura è esclusivamente di tipo sanitario. In alcuni ambiti regionali, inoltre, vige un sistema di compensazione del budget regionale, con redistribuzione delle eventuali economie conseguite da un Dsm (sul budget per l’ospedalità privata accreditata), agli altri soggetti privati accreditati operanti nella regione che abbiano sforato il budget assegnato. Il paradosso che ne consegue è che se il Dsm X promuove un maggiore impegno territoriale e una riduzione dei ricoveri, riceve il “danno” di una maggior spesa per attività domiciliari e sociosanitarie e “la beffa” di un’assegnazione dei propri fondi destinati all’ospedalità privata collocata nell’area del Dsm Y, che invece ha prodotto tassi e durate di ospedalizzazione superiori a quelli programmati. Si tratta con tutta evidenza di una modalità che “cristallizza” l’offerta ospedaliera e residenziale sanitaria e crea un sistema di convenienze che penalizza l’innovazione.
 
Un altro punto di rilievo attiene alle modalità di invio alle strutture residenziali sanitarie, vero elemento cardine per l’affermazione dei criteri di priorità ed equità d’accesso. Non a caso esse sono regolamentate da uno specifico Accordo Stato-Regioni che testualmente recita: “L’inserimento in una struttura residenziale, nell’ambito del Ssn, avviene esclusivamente a cura del Csm”. Ciononostante persiste in alcune Regioni la possibilità di “auto-invio” da parte dei professionisti delle Case di Cura accreditate, con immaginabili conseguenze sul piano della regolamentazione e del controllo dei ricoveri, e più in generale sul piano della equità di accesso che il sistema sanitario pubblico deve garantire.
 
La remunerazione delle prestazioni ospedaliere
Un ulteriore elemento critico, riguarda la remunerazione delle prestazioni ospedaliere, residenziali sanitarie e di specialistica ambulatoriale. Per le prime, ferme restando le considerazioni già svolte sull’inadeguatezza della valorizzazione del Drg, andrebbe applicata la norma nazionale che prevede tale modalità di remunerazione sia per i ricoveri ospedalieri ordinari che per quelli in Dh, superando il pagamento su base tariffaria “a giornata”, che evidentemente incoraggia comportamenti opportunistici relativi alla durata di degenza. Per le seconde, occorrerebbe un’azione centrale di monitoraggio e verifica volta a districare la vera e propria “giungla tariffaria” che le varie Regioni hanno in autonomia determinato. In analogia con il “paradosso della siringa”, anche per la residenzialità sanitaria esistono variazioni significative nella remunerazione di una giornata di degenza, che apparentemente obbediscono a un gradiente nord-sud, inverso rispetto a quello della siringa, nonostante il citato Accordo Stato-Regioni fornisca elementi di riferimento sui fattori produttivi da impegnare. Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale infine, andrebbe applicato il tariffario nazionale, con i necessari adeguamenti a discapito del pagamento a forfait, che di nuovo incoraggia comportamenti opportunistici poco compatibili con l’efficientamento del sistema.
 
 
Per quanto attiene ai servizi ed attività residenziali, semi-residenziali e territoriali (di area sanitaria e sociosanitaria) generalmente acquisiti dalla Cooperazione Sociale, la giungla tariffaria è, se possibile, ancora più folta ed inestricabile, come del resto risultano differenziate le varie definizioni di tali attività adottate nelle differenti Regioni. I principali nodi critici in questo ambito riguardano le caratteristiche di flessibilità e personalizzazione che tali servizi ed attività devono possedere per garantire efficacia, caratteristica questa che li rende difficilmente standardizzabili ex-ante. A questo è probabilmente dovuta la grande diffusione di affidi diretti tramite convenzione, rinnovati di anno in anno, nei quali la definizione del costo complessivo segue procedure di composizione che definire opache è eufemistico. Si tratta purtroppo di una modalità utilizzata ancora in numerose Regioni, che lascia spazio a non poche perplessità.
L’applicazione di procedure pubbliche di gara (ex DLgs 163/2006) viene da alcuni considerato elemento di garanzia per le persone assistite, senza far perdere ai servizi erogati le caratteristiche di personalizzazione necessarie. Questo perché, come è noto, in tema di servizi alla persona la legge prevede che la valutazione delle offerte tenga conto della vantaggiosità del prezzo sino ad un massimo del 40%. Almeno il 60% (ma talvolta fino all’80%) della valutazione verte su criteri di qualità, definiti dai professionisti stessi che hanno in carico le persone candidate ad usufruire dei servizi.
 
Il vero problema risiede semmai nella scarsa competizione per la qualità che si determina tra soggetti concorrenti. Trattandosi di servizi alla persona, che richiedono una forte connotazione territoriale, le gare pubbliche di dimensione europea assumono una dimensione solo formale, essendo del tutto improbabile che una cooperativa dislocata geograficamente lontana dalla regione in cui è in essere la gara pubblica, trovi vantaggioso un appalto, i cui costi sono determinati al 90-95% dalla qualifica e dal tempo / lavoro del personale impegnato. Le cooperative partecipanti saranno quindi quelle storicamente radicate sul territorio, poco interessate a creare conflittualità e tensione verso l’innovazione. La dimensione dell’impegno sarà direttamente proporzionale alla committenza dell’ente pubblico e quest’ultimo potrà incontrare serie difficoltà, quando non aperta ostilità, nel realizzare approcci innovativi che mettano in discussione il fatturato consolidato dalle compagini sociali, eventualmente riunite e rappresentate in organismi consortili.
 
Questa condizione di oligopolio che si riscontra in sede locale, dove sono presenti pochi players, può essere forse superata, o quanto meno attenuata, stimolando una maggiore competizione per la qualità e l’innovazione, ed eventualmente stimolando la costituzione di nuovi soggetti sociali in grado di acquisire competenze nel settore, attraverso la costituzione di albi fornitori aperti, rinnovabili liberamente nel corso del tempo, cui venga applicato il principio della rotazione, affermato dall’art. 59 del Codice Appalti (D.Lgs. 163.2006), armonizzato con il principio della personalizzazione dell’assistenza. In questo modo si può giungere, nel corso del tempo, alla costituzione di un sistema pluralistico, un quasi-mercato, dove si realizzi una reale competizione e stimolo alla innovazione dei servizi offerti.
 
Budget di salute
Le alternative, sia sul piano progettuale che amministrativo, esistono e sono state anche oggetto di convincenti sperimentazioni. Si fa qui riferimento al modello del Budget di Salute (BdS), secondo la definizione e le modalità amministrative di applicazione realizzate in provincia di Caserta e descritte in dettaglio altrove[1]. Purtroppo, la fortunata definizione ha generato, come per un diffuso settimanale di enigmistica, numerosi tentativi di imitazione che, ad eccezione delle antesignane esperienze condotte in FVG, hanno spogliato il BdS della sua forza rinnovatrice, adattandolo alle necessità degli apparati amministrativi piuttosto che delle persone con disagio psichico e delle loro famiglie.
 
Il Modello BdS fa riferimento alle esperienze internazionali relative al c.d. “budget individuale”, ossia al finanziamento reso disponibile ad un individuo con disabilità per acquisire i servizi cui ha diritto nelle aree tipiche dell’integrazione sociosanitaria: casa, lavoro, inclusione sociale. Esso è tipicamente caratterizzato da un’elevata flessibilità, dalla strutturazione sui bisogni, e soprattutto dal non essere legato a un tipo particolare di servizio o ad uno specifico erogatore. Gli obiettivi che esso persegue sono la promozione dell’inclusione ed il mantenimento nel corpo sociale delle persone con disabilità sociale grave, ricentrando l’intera rete dei servizi sociosanitari sul benessere sociale dei cittadini piuttosto che sulla malattia dei pazienti. Attraverso questo modello si è ottenuta la trasformazione di fattori produttivi esterni all’Azienda in fattori interni, gestiti direttamente, con produzione di valore aggiunto e in partenariato con il privato sociale e imprenditoriale, il soggetto stesso e la sua famiglia.
 
Il modello BdS, sottoposto a valutazione, ha dimostrato incontestabili vantaggi sul piano dell’efficienza gestionale, dell’efficacia nella pratica, dell’economicità[2]. In particolare, esso ha mostrato di essere valido strumento per la riqualificazione della spesa sanitaria e sociale. L’applicazione di tale modello ha consentito inoltre l’attuazione reale del principio della sussidiarietà attraverso la valorizzazione delle risorse formali ed informali, promuovendo ed incentivando il protagonismo delle forme associative territoriali, vero “capitale sociale” della comunità, e degli utenti stessi, che partecipano non più soltanto come consumatori ma diventando a loro volta produttori di beni e servizi .
 
In tempi di spending review e di prospettati tagli agli acquisti di beni e servizi, l’applicazione del modello BdS può rivelarsi un potente catalizzatore di qualità dell’assistenza e di riduzione degli sprechi, non più sostenibili da un sistema sanitario che voglia continuare ad interpretare al meglio i principi di equità e giustizia sociale.
 
Fabrizio Starace
Direttore Dipartimento salute mentale -DP, Ausl Modena;
Hon. Lecturer in Public Health, Rfhsm University of London
 
[1] Starace F. - Manuale pratico per l'integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute – Carocci, 2011

[2]
 Adinolfi P., Starace F., Palumbo R. Oucomes and Patient Empowerment: the Case of Health Budgets in Italy. Journal of Health Management, in press.


28 settembre 2015
© Riproduzione riservata


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