L’import-export delle cure transfrontaliere e la necessità di 'allineare' sanità nazionale e regionale
di Fabrizio Gianfrate
Opportunità o pericolo? Ci si guadagna incassando dalle sanità estere, o ci si rimette dovendo pagare i servizi da esse forniti ai nostri connazionali? E poi, se e come dovrebbe di conseguenza adattarsi l’offerta e la sua organizzazione? Con quali nuove dinamiche competitive, data la più allargata concorrenza? Del pubblico ma anche del privato? Cerchiamo di capirci qualcosa
09 DIC - “Partire è un po’ morire”, cantava mesto nella Parigi bohemien del 1850 Edmond Haracourt, all’epoca una specie di Claudio Baglioni delle Tuileries. Sbagliava: partire è un po’ guarire. Almeno nella filosofia della direttiva EU sull’assistenza transfrontaliera, recepita qualche mese fa dal nostro Governo e in progressiva implementazione con, tra le altre, l’attivazione del Punto di Contatto Nazionale (NCP) da parte del Ministero della Salute e interessanti iniziative varie da parte di Regioni o di organismi associativi come, ad esempio, quella
recente di Federsanità.
Opportunità o pericolo? Ci si guadagna incassando dalle sanità estere trattando loro pazienti, o ci si rimette dovendo pagare i servizi da esse forniti ai nostri connazionali? E poi, cambiando così la domanda e la sua elasticità a seconda che i pazienti vengano o vadano in misura variabile, se e come dovrebbe di conseguenza adattarsi l’offerta e la sua organizzazione? Con quali nuove dinamiche competitive, data la più allargata concorrenza? Del pubblico ma anche del privato?
La recente normativa allo stesso tempo integra e mette in competizione reciproca, in una sorta di “internal market” dove le sanità dei 28 Stati Membri collaborano e si fanno concorrenza reciproca, in inglese si definirebbe “coopetion”, crasi idiomatica tra “cooperation” e “competition”.
La questione, in ultima analisi, si può riassumere in un processo di import-export di servizi. “Esportiamo” prestazioni quando trattiamo un paziente che viene dall’estero, con corrispettivo flusso monetario in entrata nei nostri confini, o “importiamo” quando un italiano va a curarsi oltreconfine, con corrispettivo monetario in uscita.
Come in ogni dinamica import-export sono due i fattori principali: competitività e barriere di “entrata”, formali o informali, di ogni singolo Paese. Le due variabili sono notoriamente inversamente proporzionali e naturalmente andrebbe privilegiata la concorrenza competitiva virtuosa del merito, anziché barriere normative e/o amministrative, quelle che in altri settori sono costituite tradizionalmente da dazi e burocrazia, tra l’altro antitetici al principio del Trattato di Roma del 1957, costitutivo della CEE, sulla libera circolazione e libero scambio alla base dell’EU.
La competitività di ogni fornitore di offerta, va da sé, è nel suo grado di abilità e di risultato e dalla loro visibilità e trasparenza. Elementi che, nel nostro specifico, devono permettere sia al cittadino “europeo” di scegliere il meglio rispetto al suo bisogno, sia agli operatori di essere così spinti competitivamente verso una sempre migliore qualità. Naturalmente l’asimmetria informativa propria del nostro settore richiede la presenza di attori/strumenti di valutazione oggettivi, trasversali, condivisi e, ovviamente, transnazionali da declinare in modo fruibile all’utente e a chi lo rappresenta e tutela (medico, autorità sanitaria) per consentirgli di scegliere in modo adeguatamente informato.
Conta poi, come in ogni consumo “di massa”, anche il marketing con cui, per esempio, quella cardiochirurgia in quell’ospedale o quell’oncologia medica di quell’altro policlinico pubblicizzano i propri “plus”, successi clinici, benefici e outcome connessi. Con in aggiunta il marketing del contorno, i servizi “alberghieri” e di accoglienza, ambientali, di promozione del territorio, tanto per il paziente quanto per i suoi familiari in trasferta.
Riguardo all’accesso e le sue eventuali barriere, invece, la chiave è nella relativa semplificazione burocratica e autorizzativa da parte sia del sistema sanitario di provenienza sia di quello di accoglienza. E qui il problema, in ogni Stato, risiede nell’identificare il giusto equilibrio tra facilitazione e necessario filtro per autorizzare il giusto.
Detto tutto questo, saremo allora più un Paese d’import (andremo a curarci all’estero) o di export (verranno a curarsi da noi)?
Riguardo all’export, nella grande variabilità qualitativa dei nostri centri, non pochi svettano per spessore clinico ed elevata, anzi elevatissima, qualità. Questi possono essere sicuramente attrattivi e incamerare proventi dalle sanità estere. In questi casi l’assistenza transfrontaliera potrebbe essere quindi per essi e di conseguenza per le rispettive Regioni un business redditizio.
Certo laddove esistono già consistenti liste di attesa, cioè l’offerta non riesce a smaltire adeguatamente la domanda già critica, un incremento di quest’ultima data da pazienti stranieri non può che peggiorarne i tempi. Servirebbe allora un adeguamento dell’offerta all’aumentata domanda. In questi tempi di crisi finanziaria e tagli alla spesa è improbabile che ciò accada, almeno nelle strutture pubbliche.
Diverso potrebbe essere invece per l’erogatore privato (la direttiva prevede che le sanità pubbliche possano remunerare prestazioni fornite in Paesi esteri anche da strutture private) che magari potrebbe specializzarsi per settore clinico o per provenienza geografica. Giusto per fare un esempio, le cliniche specializzate per pazienti Rumeni o Bulgari, dove si parla la lingua d’origine, organizzate per accogliere i parenti, con aspetti amministrativi con i Paesi di provenienza ben fluidificati e facilitati e con uffici di “gatekeeping” e marketing in loco, a Bucarest, Timisoara o Sofia, per dire.
Riguardo all’import di prestazioni, cioè agli italiani diretti a curarsi all’estero, il rischio è trasformare in transnazionali le attuali migrazioni tra Regioni, cioè dal Sud anziché, per dire, a Milano, Verona o Genova si vada a Lione, Parigi o Bruxelles. A oggi un paziente ospedaliero meridionale su cinque/sei decide di curarsi nel Nord Italia perché ritiene insufficiente la sanità della propria Regione, con buona dell’enunciato universalistico del SSN e dell’art. 32 della Costituzione. Sono numeri che lasciano un sapore amaro, retrò, anni ’50, alla Zavattini, di un pezzo d’Italia povera e sottomessa, dove speranza fa rima con partenza (appunto, partire è un po’ guarire).
Tuttavia va ricordato come questi pazienti costituiscano nel conto economico di molte Regioni del Nord una voce di attivo non del tutto trascurabile per il flusso finanziario in entrata proveniente dalle Regioni del Sud a pagamento delle prestazioni erogate, risorse che andrebbero a ridursi qualora i pazienti del Sud si dirottassero oltreconfine.
Del resto la Direttiva EU porta diverse realtà geograficamente lontane a confrontarsi competitivamente tra loro, così evidenziando maggiormente situazioni di squilibrio (solo come esempio: la sanità in Sicilia costa un terzo più di quella finlandese, pur essendo i finnici il 10% in meno dei siculi) e sottolineando l’esigenza di usare le proprie risorse per investire in loco anziché pagare ospedali e servizi all’estero comprando prestazioni erogate in altri Paesi.
Detto quanto sopra dell’offerta, è opportuna una considerazione generale di fondo sulla domanda: è giustificata una quota così elevata di mobilità sanitaria come la nostra? Per restare allo Stivale, la qualità, reale o percepita, degli ospedali italiani specialmente del Sud, è davvero così scarsa da far partire via i pazienti? Ritengo di no. Sappiamo che anche al Sud operano centri clinici di eccellenza e professionisti di grande valore. Talvolta persino bene organizzati e gestiti, aspetto non raramente debole nelle nostre strutture. L’aneddotica in cronaca nera, talvolta reiterata in qualche nosocomio, non è sufficiente ad autorizzare una valutazione oggettiva generale così negativa della qualità media dei servizi erogati, anzi ne può fuorviare un giudizio onesto e imparziale.
Allora, per una giusta valutazione di merito, occorrono processi valutativi effettuati da “terzi”, in modo trasparente, non autoreferenziale e dal risultato reso pubblico. Se prima ciò serviva a livello regionale e nazionale, adesso occorre allargarne il compasso all’intera EU.
Ai tempi del referendum sul Titolo V sostenni come la sfida sarebbe stata per una sanità imperniata su due assi, regionale e nazionale, da muovere in modo allineato e sincrono come le ruote di una bicicletta. Quella federalista, appunto. E che chi l’aveva così fortemente voluta avrebbe dovuto quindi pedalarci.
Oggi non solo bisogna continuare a pedalare, e più di prima, per far muovere quelle due ruote nel frattempo diventate sempre meno allineate e sincrone, ma ora siamo pure in gruppo, in una corsa con tante altre biciclette dai colori diversi ognuna delle quali, come in ogni corsa ciclistica che si rispetti, vuole prendersi più strada che può, togliendola agli altri.
Fabrizio Gianfrate
09 dicembre 2014
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